di Antonio Medici
Siamo all’ultima tappa del giro piuttosto casuale tra cinque chef stellati. Ci siamo lasciati la scorsa settimana a Carloforte, isola di San Pietro; prima dell’imbarco per tornare in terraferma abbiamo il tempo di imbatterci nel “live cooking” di Alessandro Negrini, l’erede della brigata di Aimo Moroni, del ristorante Aimo e Nadia, a Milano, riferimento indiscusso dell’alta cucina italiana degli ultimi 30 anni. Negrini, che vanta ben due stelle Michelin, affascina, col suo eloquio prima che con i suoi piatti. Ha idee chiare e le esprime senza remora di impopolarità: “sono contrario al chilometro zero”. Vivaddio qualcuno che ha il coraggio di dirlo; a questo punto avrebbe potuto sbagliare tutto e avrebbe soddisfatto lo stesso tutti coloro i quali mangiano anche per conoscere sapori estranei alla propria cultura ed alle proprie abitudini, i curiosi insomma. Nello spazio improprio ed angusto di una cucina mobile, Negrini cerca e trova un piatto che esprima la sua filosofia. Gioca l’inevitabile carta semplicità che finisce per far risaltare il ruolo dello chef che compone, che assembla sapori essenziali per trafiggere di piacere la bocca dei commensali. Immerge un pezzo di ventresca di tonno in una sorta di acqua pazza bollente e la lascia in pentola a fuoco spento per 40 minuti. Una pietanza cotta, servita fredda, dunque. La ventresca resta morbida, le linee di grasso, rapprese con il raffreddamento, sono vellutate. Nel piatto un fondo di olio e salsa di crescione, il pezzo di ventresca e su di esso una quenelle di lardo tritato finissimo sino alla consistenza di una mousse, arricchita da aromi del mediterraneo . Carne di tonno e carne di maiale, mare e terra. E’ tardo pomeriggio e la brezza sale dal mare a rinfrescare piacevolmente una giornata assolata, del pari l’acidità dell’olio nuovo e del crescione donano immenso fresco piacere al piatto morbido di parti grasse, conturbando i sensi dei fortunati commensali.
Tornati in terraferma, il caso di una cena con un’ospite curiosa di testare l’unica stella del Sannio, nonostante qualche blando avvertimento alla cautela, ci porta all’approdo di Telese Terme, da Giuseppe Iannotti, chef del suo Kresios. All’opposto dello chef romano Monosilio, che serviva il suo sostanzioso ed ardito piatto (cfr. Roma del 14 giugno 2014) su una pallotta di carta da cucina, Iannotti serve su larghe e massicce pietre di fiume, levigate ed ammorbidite nelle forme dallo scorrere dell’acqua, una croccante chip di cotica. E’ la forma, qui, a prevalere sulla sostanza, la massa del masso per l’inconsistenza della chip poggiata al centro della pietra, definito da due striscioline disegnate con pochi granelli di polvere di spezie. Nella sala la bella vetrata che affaccia sulla vigna , con le piante di erbe aromatiche in prima fila , finisce per ben rappresentare l’essenza di una cucina che aspira ma non riesce ad affascinare. La suggestione innanzitutto, pare essere l’obiettivo di Iannotti. E così come si rimane dietro il vetro ad ammirare la vigna senza toccarla e senza sentirla, si rimane ad ammirare le composizioni dei piatti senza rimanerne appagati. C’è uno scarto imponente tra forma e sostanza. Anche il baccalà con le fragole che prometteva finalmente emozioni, nonostante l’eccellente cottura del pesce, sembra mancare di quel quid che unisce vista e gusto, dolce e salato, finendo per (non) stupire. Una stella che non brilla.