di Giancristiano Desiderio
Si ricomincia. Ogni quattro anni si ricomincia. Il pallone lo si maledice e lo si disprezza. Come quasi ogni altra cosa, ormai, in questo mondo incarognito, tranne noi stessi che crediamo di essere i migliori del mondo. Non crediamo più nei Mondiali di calcio e ci piace pensare che in fondo la Coppa di Jules Rimet era un’altra cosa, più pura, più bella, più genuina. Sarà. Ma quando si batterà il primo calcio d’inizio saremo lì a benedire il pallone che si porta dentro un pezzo del nostro cuore e della nostra infanzia. Perché? Lo dico con parole prese in prestito da Bill Shankly: “Alcuni ritengono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Vi posso assicurare che è faccenda molto, ma molto più seria”. Allora, vi voglio raccontare la storia di vita e di morte, di luce e di buio, di donne e di femmine, di musica e di alcool di Josè Andrade, “il calciatore dai piedi d’oro” (e suggerirvi la lettura del libro di Bernard Lions, Mondiali di calcio, Rizzoli).
Morì, Andrade, in un ospizio. Non aveva ancora sessant’anni. Ubriaco, abbandonato nell’immondizia, tra lerciume e bottiglie vuote. Lui che era stato sul tetto del mondo si ritrovò giù all’inferno nel mondo immondo. La sua ultima dimora, lui che fu il re delle notti di Parigi, fu una cantina miseranda di Montevideo. Fu un grande giocatore. Elegante dentro e fuori dal campo. Josè Leandro Andrade apparve come un dio alle Olimpiadi del 1924 e il suo splendore affascinò gli Champs-Elysées e i cabaret di Parigi. Uomini e donne si voltavano al suo passaggio rapiti dal suo esotismo e dalle immagini fotografiche dei suoi dribbling. Giocava da mediano ed è fin troppo facile dire che la sua fu una vita da mediano. Ma è una cavolata. Fu molto, molto di più. Dopo le Olimpiadi del 1924 verranno quelle di Amsterdam e Andrade è ancora lì a vincere e affascinare. Così quando comincia la grande avventura dei Mondiali di calcio ante litteram proprio nella sua patria sudamericana, l’Uruguay, la Meravilla Negra non è un calciatore qualsiasi ma è il calciatore. Trent’anni prima della rivelazione di Pelè – ventotto per essere precisi precisi – è lui, il calciatore dai piedi d’oro, ad essere il giocatore di pallone più bravo del mondo.
Johan Cruijff ha detto sul calcio delle grandi verità. Forse, perché lui stesso era la verità in terra e in cielo. Una dice: “Il calcio è semplice. Quello che è difficile è giocare con semplicità”. Non ho visto giocare Andrade ma è come se lo avessi visto. I grandi giocatori hanno innato proprio quanto dice con semplicità ed eleganza il Grande Olandese Volante (tutto maiuscolo, massì). E’ come se le gambe e la testa fossero tutt’uno. Non avviene sempre, ma quando avviene si ha davanti un calciatore che è cosa simile a un dio greco. Come dice Iniesta: “Il calcio è intuizione, non una faccenda fisica. Sul campo è la testa che comanda, non le gambe”. Il calciatore dai piedi d’oro era il calciatore dai piedi d’oro perché aveva il cervello nei piedi e i piedi nel cervello. Richard Hofmann, calciatore della nazionale tedesca, lo ha detto molto bene: “Andrade era un artista del calcio. Sapeva fare tutto con il pallone. Era un grande, sempre sorridente e corretto, dotato di movimenti elastici. Prediligeva il gioco diretto, fantasioso, elegante”.
Veniva da Cachimba, uno dei quartieri più poveri di Salto, nel nord-ovest dell’Uruguay. Prima di entrare a far parte del Bella Vista era stato lustrascarpe, strillone e accordatore di pianoforti. Con lui in campo, alle Olimpiadi e nel 1930 all’Estadio Centenario, c’erano Pedro Cea, José Nasazzi, Pedro Petrone, Héctor Scarone, Santos Urdinaran. Non sembra una nazionale di calcio ma una poesia. Come la vita di Andrade: una poesia maledetta. Un fiore del male. Con il calcio coltiva anche la musica. Così all’età di trentasei anni, lasciato il campo da gioco, prende il campo della vita e ritorna nei night club di Parigi e diventa un musicista prodigioso come fu il calciatore dai piedi d’oro. Ma nello spettacolo, con le donne, l’alcool e le notti parigine si perde. Nella semifinale con l’Italia ai Giochi di Amsterdam si ferì ad un occhio e ora nelle notti di Parigi gli occhi lo abbandonano fino alla cecità. Diventa vagabondo. I suoi piedi lo portano in giro per le strade del mondo ma non sono più d’oro. Riprende la strada di casa e ritorna nella terra dei padri. Vive in povertà a Montevideo e morirà di tubercolosi. Dal giorno della sua morte una targa ne ricorda la memoria all’Estadio Centenario. La sua Casa.