E’ morto l’unico filosofo italiano vivente: Manlio Sgalambro. Era l’unico filosofo, gli altri sono tutti “filosofi di ruolo” ossia professori. Anche da morto – condizione alla quale non nascose di aspirare, volente o nolente – Sgalambro, viste le salme che sono in cattedra, continuerà ad essere vivente. Nel suo ultimo scritto edito da Adelphi, intitolato Della misantropia, diceva in un aforisma: “Bestemmiava contro la storia della filosofia: ‘Questa disciplina mi ha costretto a occuparmi di Heidegger! A che punto ci porta!’”.
Le salme in cattedra si occuperanno di Heidegger e daranno alle stampe accademiche un po’ di letteratura filosofica che non esprime un cazzo, mentre quel misantropo di Sgalambro anche composto in una bara, come nella sua ultima fuga “di solo a solo”, continuerà a dire qualcosa alla nostra esistenza ed a smuovere qualcosa nella nostra coscienza. La differenza in filosofia la fa la vita. Il pensiero è vero se è abbracciato in odio e amore alla vita: allora sì che ci illumina. Come le ultime cose luminose scritte sul governo che per Sgalambro da Lentini – stessa terra, stessa cittadina di Gorgia -, come per chi stende questo necrologio, doveva essere il più possibile un governo non molesto. Cosa c’è di più molesto in Italia dei governi?
Ogni giorno il governo fa avvertire la sua imbarazzante presenza, ogni santo giorno parla e parla di sé e si rende visibile in tutti i modi. Sgalambro, che era uomo di buon gusto, notava il cattivo e pessimo gusto governativo italiano: il governo “elogia quotidianamente le sue attività e le funzioni in cui si estrinseca il suo essere in maniera indecorosa. Come se si potesse ammirare un individuo che si vantasse ogni giorno delle sue funzioni corporee”. Funziona il vostro intestino? Evacuate perfettamente, ma non per questo andate in giro a cantare le lodi delle vostre sedute in compagnia di voi stessi. Il governo, invece, fa i suoi bisogni in pubblico. E non sa neanche farli.
Ogni giorno ci dobbiamo sorbire gli uomini politici – e le donne politiche, parità di genere anche nelle stronzate, per carità – che ci dicono cosa occorre fare e cosa dobbiamo fare. Questi mi dicono cosa devo fare? Io non voglio essere governato o, se inevitabile, voglio essere governato il meno possibile. La filosofia – che non è quella cosa che intrattiene il tempo delle salme filosofiche di Stato – è l’arte o il pensiero di non essere eccessivamente governati. Sgalambro, che si rivelò al mondo con La morte del sole, ha concepito la filosofia come esercizio di autogoverno che è e rimane il modo valido in cui intenderla perché solo così la si vive.
Chi di noi, chi di voi direbbe: “Io voglio essere governato”? Gruppi di miserabili gridano insieme “vogliamo un governo” e pericolosi gruppi di imbecilli gridano insieme “vi daremo un governo”. Ma, in verità, gli individui, se almeno un po’ sani di mente, tutto vogliono eccetto che esser governati. Cosa vorrebbero gli individui? L’amministrazione del comune patrimonio che la politica chiama “società” giacché aspira ad appropriarsene. Ma il governo, che poggia sul concetto di rappresentanza, non può fare l’unica cosa che vuol fare con tutto se stesso non sapendo che non deve farla o fottendosene: rappresentarmi. “Essi vorrebbero rappresentare la mia esistenza – scriveva Sgalambro -, io dubito della loro”.
Manlio Sgalambro riconobbe in Schopenhauer il suo demone. Scelta difficile perché l’autore de Il mondo insegna che la ragione è un bisogno del corpo, come la ragnatela è un bisogno del ragno. Col tempo il demone della volontà e della rappresentazione al suo guinzaglio fece sentire meno la sua voce e la sua ragnatela e così Sgalambro curò la sua esistenza come cosa unica nella “cosa pensante” e nella “cosa corporea”. Il suo obiettivo fu quello di non appartenere quasi alla comune umanità se non tramite la sua unicità. Le ultime parole Della misantropia, più delle parole vaganti con le canzoni di Battiato, sono un testamento senza testimoni che il filosofo dettò unicamente per se stesso: “Diciamo dunque che ‘io’ sono un unicum. Che non sono un civis, come non sono un socius. Per ritornare a Descartes, io sono certo di essere una cosa che pensa, ma aggiungo che sono anche certo di avere pensieri. Anzi, nel mio caso, che i miei pensieri sono i miei unici averi. Tutto ciò che posseggo”.
Tanti errori nei pensieri di Manlio Sgalambro, ma almeno erano errori vivi con i quali valeva la pena confrontarsi. Al contrario di ciò che dice il suo testamento, non era un unicum e il nome che mi sovviene per associarlo a lui è quello di Giuseppe Rensi.