Siamo tutti sgarrupati. La parola “sgarrupato” è entrata nell’uso comune, nel linguaggio giornalistico e nella lingua letteraria con il bestseller Io speriamo che me la cavo di Marcello D’Orta. Ci sono parole che ci aiutano a capire i fatti e perfino noi stessi. Ci sono uomini che ci aiutano a comprendere i fatti prim’ancora che i fatti accadano o siano chiari ai più. Il libro del maestro della scuola di Arzano ha ieri anticipato la comprensione di ciò che siamo oggi. Siamo tutti sgarrupati.
Una delle alunne del maestro – Antonella Schioppa – ha raccontato che Marcello D’Orta faceva leggere ai suoi bambini i temi in classe e registrava la lettura. Molti anni dopo a casa del maestro Antonella ha potuto riascoltare la sua voce da bambina mentre leggeva in classe. Il maestro conservava tutto: i compiti, le voci, i regali dei bambini. Questa storia ci racconta di un grande amore per la scuola e i bambini. Eppure, il maestro della scuola di Arzano fu accusato di arricchirsi con lo sfruttamento dei bambini e sulla scia di queste accuse fu espulso dalla scuola. Io speriamo che me la cavo – il libro che resterà “il” libro di D’Orta anche se tanti altri poi ne scrisse – fu accolto come un libro umoristico, magari di un umorismo amaro ma pur sempre umorismo. E quella lettura è pur sempre piacevole e a tratti comica, come sanno essere comici i bambini con le loro folgoranti intuizioni che sono tutt’uno con la parola, la lingua, la fantasia. Quando quel libro uscì e si impose con il classico passaparola – fino a vendere milioni di copie – nacquero due partiti: il primo sosteneva che i temi erano stati scritti effettivamente dai bambini e il maestro si era limitato a raccoglierli e pubblicarli; il secondo, invece, sosteneva che i “sessanta temi di bambini napoletani” erano il frutto della penna e della fantasia di un unico scrittore ossia Marcello D’Orta. La verità non si è mai saputa e saperla, forse, non ha granché senso. Perché quei temi è come se si fossero scritti da soli, come se fossero una lingua profonda affiorata sulla superficie della coscienza. Una lingua madre che parlava attraverso i suoi figli. Marcello D’Orta era egli stesso uno di quei figli. Forse, lui stesso un bambino.
In quella lingua il lettore ci si ritrovava come a casa sua. La sentiva sua come si sente propria la lingua che parlano con le loro bellissime invenzioni i bambini. La parola “sgarrupato” ci appartiene o, forse, siamo noi ad appartenerle. Al “resto dell’Italia” quella parola la si dovette spiegare ma, una volta spiegata, tutti la intesero. Oggi gli italiani la capiscono a meraviglia e sanno che l’Italia è un paese sgarrupato. Tutti oggi sappiamo di essere sgarrupati. Marcello D’Orta già lo sapeva. Glielo avevano detto i suoi bambini: “Mia madre dice che il Terzo Mondo non tiene neanche la casa sgarrupata, e perciò non ci dobbiamo lagniare: il Terzo Mondo è molto più terzo di noi!”. Non saremo il terzo mondo ma siamo sgarrupati. Tutto lo è. Lo Stato e la società, la famiglia e il lavoro, la sanità e la scuola, l’acqua, la terra e i suoi prodotti, il presente e il futuro, forse anche il passato. La nostra anima è sgarrupata. Per uscirne come si fa? Come ce la possiamo cavare? Trasformando problemi, ostacoli, difficoltà e dolore in un’opera. Ma è quello che non sappiamo più fare e continuiamo a sgarrupare noi stessi.