Io sono un padre e chi vuole che sia “genitore 2” o “altro genitore” vada a fare in culo. L’idea di sostituire padre e madre con “genitore 1” e “genitore 2” – mettete voi 1 e 2 dove volete – oppure con “genitore richiedente” e “altro genitore” è una scemenza che non varrebbe neanche la pena di prendere in considerazione se lo stato mentale, culturale e giuridico della nostra Italia non fosse così pietoso da mettere in questione non solo i fondamenti della convivenza ma persino l’uso comune e ordinario delle parole. E’ una perfetta scemenza – sposata, purtroppo, stando a quanto leggo, anche dal ministro Kyenge – che ha la sua motivazione in una scemenza al quadrato: chi non è padre o madre pur avendo figli dovrebbe sentirsi discriminato dalle parole “padre” e “madre” e, magari, anche dall’esistenza delle persone che quei termini nominano. Perché mai il padre e la madre dovrebbero essere discriminanti per chi padre e madre non è o non si riconosce in quei concetti? Il fatto stesso di esistere – di essere al mondo – presuppone le figure del padre e della madre di qualunque natura, genere, specie e cultura siano. Se siamo al mondo siamo figli. Di chiunque e concepiti in qualunque modo, ma siamo figli. Anche se siamo orfani siamo figli. Il quarto comandamento – onora il padre e la madre – è, forse, tra tutti quello più umano. Soltanto una mentalità burocratica, ossia una cultura non-pensante e meramente esecutiva, poteva escogitare la regolamentazione del disonore.
La trovata del genitore 1 e 2 è stata partorita a Venezia mentre l’altra del genitore richiedente e dell’altro genitore è stata adottata a Bologna. L’Arcigay, entusiasta, ha invitato tutti a seguire l’esempio della “dotta Bologna”. In questo modo l’Arcigay s’illude di rendere un buon servizio ai diritti delle coppie omosessuali: non riuscendo ad ottenere la cosa – il riconoscimento giuridico della coppia e la possibilità dell’adozione – ci si accontenta del surrogato linguistico che diventa neutro ma così neutro da cancellare tutto ciò che è semplicemente vitale: padre, madre, zio, zia, omosessuale, bisessuale e tutto quanto fa vita. Non è con la cancellazione dell’identità altrui che si può difendere la propria: la condizione omosessuale lo sa sulla propria pelle e non può commettere un errore così grossolano.
La pratica di ricorrere ai sofismi linguistici per risolvere problemi concreti è tipica della cultura italiana del nostro tempo decadente: non riuscendo a comporre bene conflitti, diritti e doveri sul piano del pensiero, non sappiamo risolvere i problemi sul piano pratico e così ci rifugiamo dietro ad una semantica asettica che è il frutto dell’ignoranza, dell’ideologia, dell’ipocrisia. Ricondurre la parole al loro uso ordinario è segno di forza, freschezza e salute mentre distorcere il linguaggio fino a renderlo potente nella sua insensatezza è sintomo di fiacchezza e malattia. Che tutto questo avvenga non solo in barba al padre e alla madre – i grandi – ma in dispregio dei bambini – i piccoli, che fortunatamente se ne infischiano perché sono al qua del bene e del male – è l’elemento drammatico di un comportamento ridicolo.
La vita è per sua natura espressione di differenza. Di ogni tipo e genere: biologico, geografico, culturale, storico. Naturalmente, linguistico. L’idea più ridicola di tutte è proprio questa di cancellare le differenze servendosi della lingua che, invece, della diversità è l’espressione principale e più gustosa. La parola stessa “mamma” è, quasi sempre, quella che il bimbo pronuncia prima di ogni altra e la lingua stessa è detta “lingua madre”. La cultura che uccide le parole che la compongono uccide se stessa. Onora il padre e la madre significa riconoscere il valore di ciò che ci supera e ci istituisce, ma è proprio ciò che il nostro tempo non sa più fare.