Si può ancora dire “ricchione”? O si rischia la galera? La legge sulla omofobia divide la “strana maggioranza” del Pdl e del Pd: c’è chi la vuole rimandare e chi la vuole approvare subito. I cattolici, in particolare, vedono nella legge un cavallo di Troia con cui far passare le cosiddette nozze gay. Non credo sia un male. Tutti devono poter vivere e amare come vogliono: coppie di fatto, coppie gay, etero, omo, bisex e ambidestro. I diritti individuali e di coppia vanno riconosciuti. L’unica limitazione la farei per il matrimonio. Non per ragioni etiche ma linguistiche: la parola “matrimonio” ha in sé “madre” e significa “compito della madre”. Se la coppia, ad esempio, è composta da due maschi, come si farà a celebrare il “compito della madre”? Un buon inizio per vivere bene è parlare bene. E’ giusto riconoscere i diritti, ma è ridicolo celebrare l’unione tra persone delle stesso sesso “come se” fosse un matrimonio. La cosa contraddice la parola. Non le tiene fede. Il matrimonio omosessuale si porta dietro inevitabilmente qualcosa di grottesco. Non sarebbe un matrimonio ma la caricatura dell’idea matrimoniale. Un perbenismo piccolo-borghese cambiato di segno.
La legge sulla omofobia nasconde, però, altre ambiguità. Il reato contro gli omosessuali va perseguito, come vanno perseguiti gli atti di reati contro tutte le persone. Ma se il reato è non più l’atto ma la parola, allora, si va incontro ad un conflitto tra la presunta offesa e la libera espressione. Se atto reo contro l’omosessuale è anche il reato d’opinione si andrà incontro, nel migliore dei casi, a una serie di inconvenienti tipici del conformismo del “politicamente corretto”. Appunto, si potrà ancora dire “ricchione”? L’origine etimologica della parola è incerta – come sono quasi tutte incerte le etimologie – ma la parola in sé è ormai classica e bella e – sia detto senza alcuna offesa – è molto ma molto meglio dell’insipido “gay”. Aldo Busi se lo chiami gay si incazza: “Già la parola è orribile. Io da venti anni dico: ma gay chi? Ma gay sarà tua sorella”. Difficile dargli torto. Difficile è anche capire perché si debba definire chicchessia, in bene o in male, a partire dalle sue tendenze erotiche. Di recente Paolo Isotta ha rivendicato per sé, in quanto omosessuale e napoletano, la parola “ricchione” rimarcandone non solo l’uso espressivo ma anche il valore umano. Del resto, se la parola – e non solo la napoletana “ricchione” ma anche la romanesca “frocio” e tante altre legate alla vita amorosa e carnale – diventasse “notizia di reato”, allora, si porrebbe anche un problema di revisione e critica letteraria, poetica, teatrale. Bisognerebbe metter mano ai testi del Basile, del Belli, di Raffaele Viviani ma anche di Moravia, di Pasolini, di Arbasino (e non ho citato autori proibiti). Eduardo De Filippo in una commedia della Cantata dei giorni dispari dice: “Questo è un fetente ricchione”; “’O ricchione si’ tu”; “Va bene, siete ricchioni tutti e due”. In casi come questi, la legge sulla omofobia cosa prevede? Basta la licenza teatrale?
Una delle manie, anzi, fobie più cretine del nostro tempo è il conformismo verbale che ambisce a censurare vocaboli ritenuti volgari e interi vocabolari per sostituirli con termini e formule asettiche dalla tristezza infinita. Si crede di risolvere la cosa cancellando la parola. Ma ciò che si ottiene è solo una manomissione linguistica che alla fine – dal momento che il verbo è carne – diventa una storpiatura mentale e una goffaggine sociale. Giustamente Ruggero Guarini diceva che “fare sesso” è un’espressione insulsa. Aggiungerei che è un modo di dire artificioso, falso e volgare che non si può proprio sentire. “Abbiamo fatto sesso” mi procura conati di vomito. Ruggero, che le fobie criticava validamente con le sue fisime – anche fisima è una bella parola di uso napoletano – diceva che tutt’altra cosa e tutt’altra musica è dire “fottere” o “chiavare” la cui bellezza è sopra mille volte il volgare “scopare”. Ma il nostro è un tempo ideologicamente corretto e moralmente volgare. Non si salvano nemmeno i ricchioni.