Parlando dei “nuovi intellettuali” napoletani vorrei ricordare quanto mi disse un “vecchio intellettuale” napoletano che ci ha lasciato un mese fa: Ruggero Guarini. “Cristia’, a me Domenico Rea mi voleva bene, forse perché ero il più piccolo della compagnia. Una volta mi disse: ‘Rugge’, a me l’assegno mi ispira’. Vivaddio, non era ipocrita come tanti intellettuali impegnati di ieri e di oggi”. E, aggiungerei, era ironico. Qualità, quest’ultima, essenziale, soprattutto per un intellettuale napoletano. Perché se l’intellettuale napoletano – che secondo Marco Demarco è centrale nel dibattito nazionale – non è ironico, allora, due sono le cose: o non è intellettuale o non è napoletano. Giudicate voi.
Non so se sia necessario Dimenticare Pasolini (è il titolo del libro da cui ha preso spunto Demarco) mentre so che ciò che si dice, si scrive e si recita oggi si dimentica stasera per far spazio alle cose di domani. Da qualche parte Gianni Vattimo ha scritto che se hai un solo canale televisivo credi che sia Dio e dica la verità ma se ne hai tanti te ne fotti. L’esempio rende l’idea di cosa sia o possa diventare chi oggi si fa intellettuale: i nuovi intellettuali sono parte del circo dei nuovi media e dei nuovi social network e tra gli intellettuali e i media non c’è differenza. Non si tratta di ripetere la trita frase di McLuhan – “il medium è il messaggio” – ma di fare un passo avanti e constatare che molte cose sono dette e rappresentate solo perché sono veicolate ma in sé non dicono nulla. Ciò che manca oggi non è una teoria dei mezzi di comunicazione di massa ma una “teoria delle stronzate”. Il filosofo americano Harry G. Frankfurt si è reso conto che uno dei tratti salienti della nostra cultura è la quantità di stronzate in circolazione e ha scritto un breve saggio che è intitolato proprio così: Stronzate (bullshit) ossia balle, vacuità, scemenze. E’ un passo avanti ma siamo ancora lontani da una più rotonda “teoria delle stronzate” che ci aiuti a prendere atto che un conto è dare un assegno a Domenico Rea per fargli scrivere Spaccanapoli o Ninfa plebea e un altro darlo a un intellettuale postmoderno (mettete voi il nome, non voglio querele, questi sono permalosi).
Ma allora il problema è il post-moderno? Non lo è, ma può diventarlo. Dipende da come lo s’intende. Per fare un altro esempio, Alfonso Belardinelli – che ha detto delle cose condivisibili su Antonio Pascale – è persuaso che ai nostri tempi non si possa più proporre e scrivere il classico romanzo. Credo sia vero. Ma perché? Lo dico ancora con un esempio. Fruttero & Lucentini, autori de La prevalenza del cretino, scrivevano romanzi ma anche un testo come Il significato dell’esistenza. Il mestiere dello scrittore – ma la stessa cosa vale per il mestiere dell’intellettuale – presuppone il mestiere della vita, come ripetevano intellettuali antichi tipo Agostino, Platone e in genere le persone serie cioè ironiche. L’intellettuale post-moderno, invece, sostituisce la vita con la sua immagine e produce ciò che gli può essere utile per la carriera. Non è una caratteristica solo dei nuovi intellettuali postmoderni. E’ sempre stato così. Solo che prima erano chiamati epigoni e oggi intellettuali.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 3 luglio 2013