Il titolo non è mio. E’ di Chris Anderson, caporedattore di Wired ed è ripreso da Byung-Chul Han nel libretto Eros in agonia (nottetempo) egregiamente tradotto da Federica Buongiorno (un volumetto interessante, a parte delle esagerazioni, sul quale avrò modo di ritornare anche in un altro pezzo). Cosa significa che la teoria è finita? Che è superflua. Avendo a nostra disposizione un numero pressoché infinito di dati, ogni teoria è inutile. Sapere perché gli uomini fanno ciò che fanno – chi potrebbe mai dirlo? – non è importante. Ciò che è importante è sapere ciò che fanno e poterlo misurare con esattezza e gestirlo. Basta Google. Dunque, ciò che conta realmente sono le informazioni. I cosiddetti dati. Insomma, i numeri. Sennonché, siamo davvero in grado di assumere decisioni sulla base dei dati?
La teoria non è un soprammobile. Un di più di cui si può fare a meno. La teoria – rispettando il significato greco della parola – è ciò che ci permette di vedere il mondo. Mentre i dati si allineano e si sommano, la teoria sceglie. Mentre i dati sono enumerati e calcolati, la teoria pensa. Dunque, fine della teoria significa fine del pensiero. E la fine del pensiero è l’incapacità di usare i dati e persino di conoscerli. Perché ciò che si chiama “dato” non è dato prima del pensiero ma solo dopo o, se si vuole, solo nel pensiero. I dati sono effettivamente tali quando sono individuati dal pensiero che altro non è che giudizio. Viviamo un tempo in cui è andata smarrita la kantiana facoltà di giudizio? La cosa non è da scartare con una alzata di spalle.
I dati sono sicuri. Sono positivi. “Questo è un dato certo” si sente dire. Il pensiero, invece, ha a che fare con il negativo. La sua fonte è l’inquietudine. L’origine del pensiero è nella passionalità morale che cerca risposte per agire. Il pensiero è un apripista. Il pensiero dà forma all’inquietudine, affronta l’angoscia sul piano del concetto, prova a far luce e a dare la mano alla volontà. Il pensiero per sua natura è in contatto con la natura: con l’alterità, con il negativo che qualifica. Non c’è nulla di vago e romantico in questo procedimento ma, al contrario, c’è lo svolgimento della vita nella sua dimensione storica perché si pensa per vivere. E’ sciocco ritenere che il pensiero non sia interessato. L’interesse è la fonte del pensiero che è, appunto, nell’essere. Se così non fosse, il pensiero non risulterebbe interessante e sarebbe privo di vita. Sarebbe solo un dato.
Dove si è persa la capacità di giudizio? Nell’accademia, nel giornalismo, nella comunicazione. L’accademia non ha nulla a che vedere con il pensiero e, anzi, ne rappresenta la più compiuta negazione. Il giornalismo, ingolfato nelle informazioni in tempo reale, ha smarrito il senso della critica. La comunicazione è il sistema stesso della trasmissione e rinvenimento di dati nel quale siamo immersi. Il pensiero, ossia il giudizio che distingue e riconosce cose e atti e prepara la capacità di agire, è un intruso da espellere. E’ espulso. Dai dibattiti che sono diventati elenchi di dati, liste di informazioni, esibizione di schede. Ma anche dalle redazioni, dalle aule, dai parlamenti. Ma la democrazia senza pensiero è la parodia di se stessa.
Sempre più spesso si ricorre alle consultazioni. I rappresentanti che non sanno scegliere ricorrono ai cittadini, alle consultazioni, alla gente. Le consultazioni sono una raccolta di nuovi dati. Siccome dai dati precedenti non è venuta fuori alcuna decisione – perché da nessun dato salterà mai fuori una decisione – si ricorre alla consultazione per sapere cosa fare. La democrazia muore per troppa democrazia. Un esempio: il governo Monti avrebbe voluto abolire il valore legale dei titoli di studio per rinnovare scuola e università; per farlo fece una consultazione on-line per raccogliere nuovi dati, il maggior numero possibile di informazioni. Risultato? Non si è fatto più nulla. E’ solo un esempio tra i tanti. Anzi, è un dato.