Prendete carta e penna, oppure digitate e cercate su internet il nome di Vito Faenza, a cui corrisponde un libro dal titolo piuttosto romantico, L’isola dei fiori di cappero. E ora correte presso la vostra libreria di fiducia, oppure mandate un’e-mail. Ordinatene due copie, perché una non vi basterà. Questo romanzo vive davvero una strana sorte: è talmente bello che senti il bisogno di passarlo alle persone più vicine, che a loro volta faranno lo stesso e via discorrendo. Così la sua virtù, l’essere un romanzo di valore, accentua il problema principale, che è quello di sostenere un’intrapresa editoriale, quella della Edizioni Spartaco, che fatica contro i colossi dell’editoria e della distribuzione.
Per questo occorre uno sforzo: superare la pigrizia, la mancanza di tempo, gli impegni personali, per assecondare il gusto della scoperta che è proprio di ogni lettore. Ne vale la pena.
Vito Faenza è un personaggio particolare, e non solo perché ha un passato da nazionale di pallavolo e, ai suoi tempi, affrontava anche un beneventano illustre: Raffaele Delcogliano. E neanche soltanto perché è il cugino del regista Roberto Faenza, o perché un suo zio era deputato insieme all’attuale Capo dello Stato, Giorgio Napolitano. E nemmeno perché è un grande e raffinato cuoco, un uomo a cui piace giocare con i gusti della terra e del mare, e a cui piace raccontare il senso di questo giocare. Giornalista di camorra e saggista, Faenza è uno straordinario conoscitore delle dinamiche criminali che sottendono gli stessi rapporti sociali all’interno dei territori, come quelli dell’Agro aversano, dominati dalla malavita. Ha scritto diversi saggi, sulla materia. Questo è il suo primo romanzo: esordio narrativo riuscitissimo.
L’isola dei fiori di cappero parla di camorra, certo, ma anche di gruppi sociali e familiari, di paura, di leggi della giungla che diventano “regole” comunemente e pedissequamente accettate, anche in virtù della logica del terrore che le garantisce. E poi parla di una donna coraggiosa. E poi di amore, che è sempre una cosa importante, soprattutto in mezzo allo sterco di una comunità definitivamente minata dal suo male. Non può sfuggire l’omaggio ad un prete ucciso nella sua chiesa: don Peppino Diana rivive e, con lui, rivivono i nomi e le storie di quegli eroi che garantiscono per l’onore di un intero popolo, nonostante il popolo.
Dal risvolto di copertina:
«Ha solo tredici anni, Anna, quando viene notata dal figlio del Boss. Attratta dalle automobili di grossa cilindrata, dai regali che riceve e dal rispetto che Lui incute, la ragazza accetta le sue attenzioni. Questo errore, dettato dalla vanità, si trasforma ben presto in una pesante catena che solo la passione profonda di uno studente di giurisprudenza, poi magistrato, riuscirà a spezzare. Una notizia di cronaca nera diventa lo spunto per una travolgente storia d’amore raccontata da un attento osservatore di malavita organizzata. La trama, liberamente ispirata a vicende reali, finisce per diventare uno spaccato di quanto spesso avviene in certe zone del Sud e a volte anche del resto d’Italia. Politici corrotti, la camorra che s’insinua nelle stanze del potere, guerre tra clan, attentati e raid omicidi, la paura che come una fitta cappa grigia soffoca la flebile voce di chi non ha la forza per ribellarsi. E poi la legge, che fatica a mettere ordine e che talvolta è costretta a calcare la mano per ottenere una giustizia parziale. Nessun eroe, nessun vincitore. Solo una lotta per sopravvivere all’altro».
Questa mia modesta recensione non vuole essere un’agiografica esaltazione. Ed infatti rilevo il difetto principale del libro: la mancanza di una postfazione che spieghi al lettore come nasce il romanzo. Perché questa è una storia nella storia. Gli accadimenti risalgono a circa trent’anni fa: erano gli anni Ottanta del secolo passato. Faenza non ne aveva scritto. Nel 1986 o giù di lì, il giornalista si trova a Lipari, l’isola dei fiori di cappero, dove assiste ad una partita di basket tra i ragazzi in villeggiatura, tra cui suo figlio. L’isola è frequentata da personaggi famosi, come De Gregori e Dalla. Quest’ultimo, insieme al suo manager, guarda la stessa partita di basket. Si fanno avanti un uomo e una donna. Faenza pensa che vogliano un autografo da Lucio Dalla, invece si parano davanti a lui e gli chiedono: «Ti ricordi di noi?». Faenza non aveva riconosciuto i due, la cui storia viene ascoltata da Dalla e dal suo manager. Questi ultimi, l’anno successivo, incontrano Faenza in occasione di un concerto a Napoli e gli chiedono se avesse scritto la storia raccontata dai due turisti incontrati casualmente a Lipari. Allora Faenza prende tre cartelle di appunti e le mette nel cassetto, fino a quando, un quarto di secolo dopo, va in pensione e decide di scrivere il romanzo di cui sto trattando. I due sconosciuti sono i protagonisti del libro.
Magari una seconda edizione potrà correggere la mancanza di una postfazione.
Ringrazio Faenza per questo gioiello. Non vorrei fare paragoni arditi, ma questo termine fu usato per giudicare Sostiene Pereira di Antonio Tabucchi. Indovinate un po’ chi è il regista della trasposizione cinematografica del romanzo di Tabucchi? Proprio Roberto Faenza, il cugino di Vito. Casualità, certamente. Ma qualche libro l’ho letto e penso di non lasciarmi andare ad esagerazioni di sorta. Ringrazio l’autore anche per la simpatia e la verve con cui ha catturato l’attenzione delle studentesse e degli studenti dell’Istituto superiore ‘Telesi@’, dove il libro è stato presentato circa un mese fa. E grazie anche perché il dattiloscritto, che doveva essere consegnato alla Rizzoli (che ne avrebbe garantito ben altra tiratura, distribuzione e sostegno commerciale), ma è stato dato a quella piccola casa editrice che aveva pubblicato i precedenti saggi di Faenza. Un gesto di coerenza e di amore verso una terra, l’Agro aversano, e non solo verso un editore.
Ringrazio infine Billy Nuzzolillo, che in tutti questi anni non ha smesso di tenere aperta la discussione sulla legalità e sulla cittadinanza partecipata e consapevole, facendo vivere questi temi nella società e nella scuola. Un ringraziamento ancor più riconoscente, per aver voluto che l’importante finestra della “Settimana della Legalità” nascesse a Telese e da Telese non andasse via.
Sarà un onore e un piacere, in autunno, ospitare ancora Vito Faenza a Telese.