Ayrton Senna aveva 34 anni, era bello e, ancor più, era bravo. Il più bravo, dicono in tanti. Forse più bravo di Manuel Fangio, di Nuvolari, Ascari, Jim Clark, Niki Lauda. Quel 1° maggio del 1994 era contrariato. Stranito. Non voleva correre. Non voleva scendere in pista. Lui, l’ultimo grande vero pilota della Formula 1, quella prima domenica di maggio ad Imola sentiva che stava per accadere qualcosa di brutto. Qualcosa di ancor più brutto e definitivo di quanto era già accaduto: l’incidente mortale di Roland Ratzenberger alla curva Villeneuve. La fidanzata Adriana rivelò: “Era molto depresso, aveva un brutto presentimento e voleva rinunciare alla corsa”. Purtroppo, non lo fece. Scese in pista per l’ultima volta e portò con sé la bandiera austriaca perché, se avesse vinto, l’avrebbe sventolata come omaggio a Roland Ratzenberg. Era in testa alla gara quando, alle 14 e 17 minuti, alla curva del Tamburello lo sterzo della sua Williams cedette. L’auto viaggiava ormai senza i comandi del pilota e in quella curva – maledettissima curva – andò dritta, usci di pista, sollevò terra e sabbia e si schiantò sul muretto. L’immagine non mi è mai uscita dalla testa. Ogni volta che vedo un’auto di Formula 1 la rivedo. L’impatto fu violentissimo. Un braccetto della sospensione entrò nel casco e ferì il pilota brasiliano. Arrivarono i soccorsi. Inutilmente. Il pilota di Formula 1 più forte di tutti i tempi morì tre ore dopo. Da quella lontana e demoniaca domenica di maggio non seguo un Gran Premio. Che senso avrebbe avuto – per me – vedere una gara di Formula 1 se in pista non c’era più Ayrton Senna?
Quante cose andarono storte in quei giorni di primavera italiana. Quante cose andarono storte quel sabato con l’incidente di Rubens Barrichello e la morte di Roland Ratzenberger. Quante cose andarono storte in quei sette giri del Gran Premio di San Marino. Come sette gironi infernali. Ayrton Senna era un pilota esperto. Un campione. Della sua automobile conosceva tutto. Era lui stesso a dire ai meccanici come intervenire sulla monoposto per averla al meglio. Niki Lauda diceva che un’auto, soprattutto un’auto di Formula 1, si guida con il cervello ma si sente con il culo perché è con il culo che si capisce cosa va e cosa non va. Ayrton Senna forse era il migliore perché aveva messo in pratica la lezione del grande Niki. Chiese ai meccanici di intervenire sul piantone dello sterzo per migliorare la visibilità della strumentazione. L’intervento dei meccanici non fu granché. Il piantone fu saldato malamente a circa un terzo dalla distanza dal volante e – secondo la perizia dell’inchiesta – non poteva resistere alle forti e continue sollecitazioni della corsa. Al settimo giro cedette privando Senna di ogni possibilità di intervenire sulla macchina diventata incontrollabile. Una macchina mortale. Tuttavia, se non ci fosse stato quel muretto Senna non sarebbe morto. L’impatto non ci sarebbe stato o sarebbe stato, in caso di protezione, di tutt’altra specie e forza. Perché c’era un muretto a venti metri scarsi dalla curva? Quante polemiche ci furono su quel muretto. Da subito. Da subito. Mentre le altre monoposto erano ancora in pista, mentre gli altri piloti ancora non sapevano che Ayrton Senna era di fatto morto. Mentre il pilota della Ferrari, Gerhard Berger, gridava: “Fermate questa fottuta gara”.
Già, fermatela. Anche se ormai era tardi, troppo tardi. Proprio lui, Senna, disse: “Nessuno ci ha ordinato di correre in Formula 1, ma non siamo pagati per morire”. Ma ci volle la sua morte per rendere più sicure le gare. Proprio perché era il più bravo, sull’asciutto e sul bagnato, sapeva che si può correre a 300 all’ora limitando il rischio al minimo. Diceva: “Occorre sedersi a un tavolo insieme ai rappresentanti e ai costruttori. Bisogna impegnare uomini e soldi nella ricerca del migliore compromesso tra sicurezza e spettacolarità”. Ci volle la sua morte su quel muretto nella curva del Tamburello per convincere il Gran Circo dei Gran Premi che era arrivato il momento di sedersi a un tavolo. Sulla sua tomba c’è scritto: “Nulla mi può separare dall’amore di Dio”. Ma si poteva aspettare ancora un po’ prima di unirsi per sempre all’amore divino, perdio.
Ayrton Senna era Ayrton Senna e lo ricordano in tanti, forse tutti, anche chi non l’ha conosciuto, né visto correre. Ma Elio De Angelis non era Ayrton Senna. Quando morì il brasiliano non piansi. Rimasi impietrito. Quando morì il pilota romano piansi come un ragazzino perché ero un ragazzino. Piansi perché Elio De Angelis, la cui bravura era pari alla sua sfortuna, era un pilota italiano dalla storia particolare. Non correva per la Ferrari ma per la Lotus ma siccome in Italia si preferisce tifare per le auto e non per i piloti, De Angelis era quasi considerato uno straniero. Invece, era italianissimo. Gli piaceva correre e gli piaceva la musica. Di sé disse che se non avesse fatto il pilota avrebbe senz’altro voluto essere un musicista. Morì sul circuito francese di Paul Ricard a Le Castellet. Fu sfortunato: correva e correva e l’alettone posteriore della sua BT55 si staccò, l’auto perse stabilità e si alzò da terra, si cappottò più volte, finì contro una barriera, prese fuoco. I piloti si fermarono per soccorrerlo subito: Alan Jones, Nigel Mansell, Alain Prost. Ma i soccorsi nelle sessioni di test privati non potevano contare, all’epoca, su molti mezzi e uomini. Solo dopo la morte di De Angelis le cose cambiarono. L’elicottero giunse 30 minuti dopo. Il pilota romano fu portato all’ospedale di Marsiglia. Il giorno dopo, era il 14 maggio 1986, Elio De Angelis morì. Jean Alesi ha ripreso i colori e i disegni del suo casco per onorarne la memoria.