“E’ tardissimo, tardissimo. Cazzo! Devo correre”. E’ il 17 gennaio di due anni fa. Stefano Federico, 32 anni, risiede a Capri perché li è nato e ci vive con la sua amata famiglia. A Napoli ci lavora. E’ stato assunto alla reception dell’Hotel Vesuvio perché conosce diverse lingue ed è uno in gamba. Ha terminato il turno settimanale, si avvia verso il porto di Napoli per tornare a casa. E’ in ritardo. Rischia di perdere l’ultimo traghetto. Accelera il passo ma Calata di Massa, dove salpano i traghetti, sembra lontanissima. Fa freddo e minaccia pioggia. Stefano allora per raggiungere più rapidamente l’imbarco s’incammina in un’area portuale interdetta al transito dei non addetti ai lavori. Il passo è veloce a tratti corre. E’ ansia. E’ voglia di lasciarsi Napoli alle spalle. La pattuglia sbuca improvvisa. L’auto con i quattro vigilantes lo insegue. Stefano neppure si accorge di nulla. E’ concentrato. “E’ tardissimo, tardissimo. Cazzo! Devo correre”. L’auto si mette di traverso. Stefano prende fiato e farfuglia qualcosa. Non capisce. Non comprende perché i quattro vigilantes l’hanno circondato. Prima uno schiaffo. Poi un calcio. Poi un paio di cazzotti. Stefano è come imbambolato. Mugugna qualcosa: “Devo prendere il traghetto. Sono di Capri”. E’ già accasciato a terra. Calci, pugni, cazzotti al ventre. E’ una aggressione. Una violenza immane e gratuita. Il branco è inferocito. Vogliono vedere scorrere il sangue. E’ un pestaggio inaudito. Stefano boccheggia. E’ esanime sul selciato. Respira a fatica. L’hanno ammazzato di botte. E’ un tossico, un drogato rimasto vittima di una overdose, diranno agli agenti della Questura. Sono bugie, fandonie, depistaggi per sviare le indagini.
Stefano scriveva poesie, amava la musica, confezionava origami, pattinava, amava la cultura del Giappone, paese dove aveva vissuto a lungo. Stefano era innamorato della vita. Perché quella violenza? Perché aggredirlo? Perché massacrarlo di botte? Perché picchiarlo fino a farlo stramazzare a terra? Perché quelle menzogne? Perché??? E nessuno degli investigatori ha mai creduto alla versione dei vigilantes. Neppure per un attimo.
E’ la Squadra mobile di Napoli con la polizia marittima ad incastrarli recuperando i filmati agghiaccianti delle telecamere a circuito chiuso. Scattano gli arresti. Il 9 maggio scorso Stefano Federico avrebbe compiuto 35 anni. Nel giorno del suo compleanno il giudice Giovanni Pentagallo, presidente della IV Sezione della Corte d’Assise di Napoli, ha riconosciuto i quattro vigilantes Marco Gargiulo, Carlo Berriola, Armando Davino, e Vitale Minopoli colpevoli di omicidio preterintenzionale e li ha condannati a otto anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e al risarcimento dei danni. “Spero che i colpevoli almeno siano perseguitati dal rimorso di aver tolto alla nostra famiglia il nostro amatissimo figlio” racconta con dignità e fermezza Gino Federico, il papà di Stefano.
Il pensiero corre a un altro Stefano che è stato massacrato da altre divise però non ha trovato giustizia in un’aula di Tribunale. Anzi da morto deve continuare a difendersi dalle botte e dai pregiudizi. Ecco conoscendo Ilaria sono sicuro che non si fermerà. Sa bene che non è sola. Il nome, il destino. Santo Stefano fu il primo cristiano ad aver dato la vita per testimoniare la propria fede in Cristo e per la diffusione del Vangelo. C’è un’ Italia marcia, razzista, violenta che anche nel nome dei tanti Stefano bisogna cambiarla.
(tratto dal blog di Arnaldo Capezzuto su il Fatto Quotidiano)