Giorgio Dell’Arti e Massimo Parrini lo avevano inserito nel loro Catalogo dei viventi ma ora che Ruggero Guarini è morto bisognerà inserire il suo nome, la sua biografia e la sua opera nel catalogo della nostra memoria e della nostra cultura perché Ruggero è stato un grande giornalista, un ottimo scrittore e aveva una sensibilità al tempo stesso poetica e filosofica grazie alla quale non risultava mai banale. Qualche anno fa scrissi un pezzo per parlare del suo ultimo libro Chiunque tu sia pubblicato nelle eleganti edizioni de il notes magico. Mi chiamò e mi disse: “Così mi fai arrossire”. Ma non avevo esagerato in nulla perché quel librettino di versi e poesie è davvero cosa bella e deliziosa e quel verso greco – chiunque tu sia – è rivolto al divino che ci possiede e vive e del quale Ruggero aveva una concezione ispirata da Lucrezio e Leopardi e, ancor più, dalla sua non falsata esperienza della vita.
Lo leggevo da sempre ma lo conobbi solo nel 2004 quando passai a L’Indipendente. Lui scriveva articoli per la politica e la cultura, sempre contro la corrente e il conformismo e il puritanesimo e il giustizialismo. Un anno dopo divenni vicedirettore del giornale e l’amicizia e la collaborazione con Ruggero si arricchirono di telefonate, consigli, conversazioni, incontri. Veniva in redazione, andavamo a pranzo dalle parti di Piazza Farnese. Era già un po’ acciaccatello, camminava a piccoli passi, un po’ a scatto ma la sua testa era lucida e versatile, la sua cultura senza confini. Soprattutto, la cultura per Ruggero non era cosa libresca e scolastica. Tutt’altro. Al centro c’era la vita e la consapevole illusione di capirci qualcosa. Fu comunista e divenne anticomunista, giornalista, responsabile delle pagine della cultura de Il Messaggero e, se non sbaglio, per qualche tempo si ritirò in convento non per abbracciare la fede ma perché – come mi disse – avevo bisogno di quella vita fatta di regole e disciplina.
Degli scrittori napoletani del Novecento conosceva tutti per averli frequentati, anche se apparteneva ad una generazione più giovane. In particolare, oltre a Raffaele La Capria – Duddù – si strinse d’amicizia con Domenico Rea. All’amicizia con l’autore di Spaccanapoli teneva in particolar modo e suo è un bellissimo saggio sull’opera del maggiore scrittore napoletano del secondo Novecento pubblicato nel Meridiano che ne raccoglie l’opera: “Io ero il più piccolo – mi diceva parlando di Rea e lo ascoltavo con avidità – e Rea mi prese in simpatia. La grandezza di Rea, ciò che ne ha fatto la fortuna anche letteraria e poetica, sta nel fatto che non è stato mai neanche solo sfiorato da quella cretinata che è stata l’Ideologia. Non era ipocrita, come ce ne sono tanti, e confessava allegramente di scrivere anche per i soldi. ‘Rugge’ – diceva – a me l’assegno mi ispira’. E rideva”. E rideva con gusto anche lui che apprese a sua spese come liberarsi dal morbo ideologico.
Non molti sanno che Ruggero Guarini aveva origini sannite. La sua famiglia aveva proprietà a Cerreto Sannita e lui stesso, ogni tanto, faceva un salto nel paese in cui visse soprattutto nel tempo della sua fanciullezza e adolescenza durante la guerra. A Napoli, soprattutto dopo il 25 luglio del 1943, era pericoloso stare, piovevano bombe, e la famiglia di Ruggero se ne tornò al palazzo di Cerreto Sannita. Qui il piccolo Ruggero, come lui stesso ha raccontato non poche volte nei suoi articoli sul Corriere del Mezzogiorno, fece le sue prime esperienze e scoperte d’amore che credo abbiano trovato posto anche nel suo primo romanzo Parodia. E mi piace pensare che gli siano state utili anche per quel suo lavoro letterario che è destinato a restare perché ha già un suo posto nella letteratura italiana: una nuova edizione del Cunto de li cunti di Gian Battista Basile curato per Adelphi. Se si considera che l’altro traduttore del Basile è Benedetto Croce, si capisce l’importanza del lavoro di Ruggero Guarini e il suo sforzo di riportare il “racconto dei racconti” ad una lingua il più possibile vicina a quella delle fiabe del poeta barocco che forse più amava e ogni tanto, tra una fetta di melone e una di prosciutto, mi illustrava sotto un ombrellone nel sole di Piazza Farnese.
Ciao, Rugge’.