Il governo Letta non è il frutto di una strategia ma di una necessità: l’ultima spiaggia. Non è nato da due forze ma da due debolezze. I due partiti che lo sorreggono e lo compongono sono i due principali responsabili, ognuno per la propria parte, del fallimento con cui si è conclusa la storia travagliata della Seconda repubblica che passerà alla storia con il titolo di una canzone insulsa che vinse a Sanremo: Fiumi di parole. Ma chi è il maggior responsabile del fallimento inglorioso di una stagione storica che si era presentata con l’entusiasmo e la prosopopea del Grande Cambiamento? Il libro di Antonio Polito – lo discuteranno a Benevento Marco De Marco, Gennaro Malgieri, Mario Landolfi, Umberto Ranieri, Pasquale Viespoli insieme con l’autore nell’incontro organizzato da Mezzogiorno nazionale all’Auditorium Vergineo – fa un nome preciso: la destra. E identifica la destra con la storia di Silvio Berlusconi. Perché, in fondo – il libro s’intitola proprio così: In fondo a destra (Rizzoli) -, è stato il Cavaliere a “sdoganare” la destra, ad “assumerla” su di sé e portarla al governo in men che non si dica. In un battibaleno. Così, da subito, fin dal 28 marzo 1994, il giorno dopo la vittoria inaspettata di Forza Italia alleata al Nord con la Lega e al Sud con il Msi che ancora non era diventato Alleanza nazionale, Berlusconi divenne il Cavaliere Nero. Ma questa storia, che ha dello stucchevole e che non s’intende se non si conosce la storia che questo stranissimo paese che è l’Italia ha dietro le spalle con un passato che non passa mai, è oggi finita – o così pare – con i neri e i rossi che sono insieme a Palazzo Chigi e a Montecitorio (anche se dalle parti della sinistra si suggerisce di dichiarare ineleggibile Berlusconi e non candidabile il Movimento 5 stelle).
Il libro di Polito si regge su un’interpretazione nota della storia d’Italia: la storia di un’anomalia europea in cui, per mancanza della destra, non si è realizzata una democrazia dell’alternanza e si sono sempre susseguiti, a partire dalla nascita dello Stato italiano, una serie di blocchi e sistemi di potere che sono crollati su se stessi in maniera ciclica e cruenta. E’ una storia nota che non può neanche essere detta “anomala” perché ogni nazione ha la storia che ha e quella italiana ne ha una forse più particolare per almeno due motivi: perché giunge allo Stato unitario con secoli e secoli di ritardo rispetto agli altri paesi europei e perché il progetto unitario è pensato e fatto non con la Chiesa ma nonostante la Chiesa e contro la Chiesa. Ma ora stare a raccontare questa storia non ha molto senso e non mi interessa. Invece, è meglio soffermarsi un po’ su un capitolo o magari due del libro di Polito: quelli dedicati alla borghesia e allo Stato.
La destra italiana è sempre stata debole perché debole era e continua ad essere la borghesia (ammesso e non concesso che esista ancora qualcosa che si possa chiamare “borghesia”). L’Italia unita fu fatta anche per dare un mercato alla borghesia ma la borghesia non è mai riuscita a darsi una volontà più intraprendente e mobile ed è rimasta invece sempre bisognosa di protezione. Il vero carattere nazionale – non posso proprio dar torto a Polito – è il corporativismo che non è qualcosa di grande ma qualcosa di piccolo. Corporazione – gli ordini nazionali sono una riedizione dell’originario spirito corporativo – significa protezione, familismo e rifiuto della competizione e della concorrenza che significano responsabilità e libertà. Qual è il ruolo dello Stato? E’ quello di essere allo stesso tempo egli stesso una corporazione – la più grande – e nel contempo, e proprio per questo, una controparte. La borghesia non si assume la responsabilità di fare e guidare lo Stato ma vuole dallo Stato protezione anche là dove la protezione è fuor di luogo. Così il rapporto tra Stato e borghesia è all’insegna dello scambio e del servilismo. Avviene così in ogni settore: industria, scuola, sanità, editoria. La borghesia italiana, che nel tempo è diventata per il suo altissimo tasso di dipendenza statale, una sottoborghesia, riassume quella che al di là delle diverse e contrapposte ideologie è la vera e unificante ideologia nazionale: l’individualismo statalista.
Quando Berlusconi apparve sulla scena politica aveva una grande parola d’ordine: libertà. Ce l’ha ancora oggi: ma mentre ieri indicava una strada e una possibilità, oggi indica un fallimento. Berlusconi si presentò sulla scena e apparve a tutti come un extra-terrestre, un anti-italiano perché la sua proposta politica ed economica, che s’ispirava alla signora Thatcher, rompeva proprio il patto malsano tra Stato e borghesia con la borghesia a rimorchio di una burocrazia senz’anima ma con un corpaccione di dimensioni sovietiche. In poco tempo, però, il liberalismo di Berlusconi si è rovesciato: non è servito a risolvere il problema italiano ma ad agitare problemi per raccogliere consenso. Il liberalismo berlusconiano si è rivelato un bluff ed è rientrato nel patto malsano da cui era uscito. Perché? Forse, perché troppo forte è stato il peso della storia? Forse, perché troppo forte è stata l’organizzazione statale-sindacale-imprenditoriale? Forse, perché in fondo Berlusconi non è un anti-italiano ma un arci-italiano, non solo nella persona ma nell’impresa a sua volta dipendente dallo Stato? Domande e risposte si richiamano a vicenda ed evidenziano che non si può addossare la responsabilità di un fallimento storico sulle spalle di un solo uomo, anche se quell’uomo è a sua volta la sintesi del fallimento. In questa ultima spiaggia dei bagni Letta, in fondo a destra c’è anche la sinistra e l’Italia è ancora un paese immaturo in cerca di una balia di centro che soddisfi i suoi bisogni e ne prolunghi l’immaturità con un nuovo sistema politico e sociale senza alternanza. In saecula saeculorum.