Scrivere bene l’italiano è un dovere morale del giornalista. Per scrivere bene l’italiano bisogna fare un corretto uso (anche) della punteggiatura. Dalla posizione di una virgola può dipendere il senso di una frase. Il filosofo Gianni Vattimo una volta ha avvertito la necessità di scrivere un saggio intitolato “Storia di una virgola” – lo si legge nel volumetto Vocazione e responsabilità del filosofo – per chiarire il senso della frase più importante del libro Verità e metodo di Gadamer: “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”. Il filosofo tedesco scrisse la frase nella sua versione originale senza virgole ma quando il testo fu tradotto da Vattimo in italiano fu proprio Gadamer a volere le due virgole. Perché? Perché senza le virgole la frase sta a significare che l’essere è linguaggio, mentre con le virgole si esprime l’autentico pensiero di Gadamer che non sostiene l’identità assoluta di essere e linguaggio bensì la differenza e la comprensibilità dell’essere mediante il linguaggio. La punteggiatura, quindi, pur essendo una convenzione relativamente recente, ha la sua importanza. Non sarà questione di vita o di morte, ma in alcuni casi è decisiva. Si sa che il leggendario Martin “perse la cappa” e così non fece carriera nella sua abbazia proprio “per un punto”, per un piccolissimo e miserrimo segno di interpunzione. Doveva scrivere e dipingere sul portale la seguente iscrizione: PORTA PATENS ESTO. NULLI CLAUDATUR HONESTO – “questa porta sia sempre aperta. Non la si chiuda a nessun uomo onesto” – ma sbagliò a collocare il punto e il motto assunse tutt’altro senso: PORTA PATENS ESTO NULLI. CLAUDATUR HONESTO – “Questa porta non sia aperta a nessuno. All’uomo onesto la si chiuda in faccia”. I segni di interpunzione hanno, come si vede, la loro importanza.
Purtroppo, gli italiani – tutti gli italiani, vecchie e giovani generazioni – fanno un uso maldestro della punteggiatura. Passano da un eccesso all’altro: o non la usano per niente o ne abusano. Un po’ come Totò e Peppino nella famosissima scena di Totò, Peppino e la malafemmina in cui Totò detta il testo al povero Peppino, che suda le proverbiali sette camicie, e gli dice: “Punto, due punti. Ma sì, fai vedere che abbondiamo: abbondantis is abbondantum”. Se si facesse un buon uso della punteggiatura non ci sarebbe neanche bisogno di parlarne. Passerebbe del tutto inosservata perché sarebbe al suo giusto posto. Invece, nulla è più fuori uso dei segni di interpunzione che sono addirittura finiti fuori testo e fuori contesto. Celebre è il caso delle virgolette – “ ” – che sono diventate un orribile modo di dire: “Tra virgolette”, appunto. Quando si vuole dare un diverso significato alla parola o alla frase si usa dire “tra virgolette” e in molti casi chi parla non solo fa ricorso a questo modo un po’ stupido di esprimersi ma con l’indice e il medio di entrambe le mani mima proprio il segno delle virgolette. Se gli italiani parlassero con chiarezza non avrebbero bisogno delle virgolette. Un segno dei tempi. Anzi, segni dei tempi. Forse, è un problema antico: gli italiani non usano la parola buona, cioè adatta, perché sono alla ricerca della buona parola.
C’è poi la famosa questione del trattino. Non molti anni fa si sviluppò una discussione di questo tipo: la parola composta centro-sinistra va scritta con il trattino o senza trattino? Nel primo caso ci sarebbe stata una distinzione politica tra il centro e la sinistra, mentre nel secondo caso non ci sarebbe stata nessuna distinzione e il centro si sarebbe perso nella sinistra o la sinistra nel centro. Anche qui, come per le virgolette, chi parlava e citava la parola centro-sinistra si preoccupava di dire che la parola era da intendersi con o senza trattino. Come potete capire, una discussione folle, a volte ancora in uso, che evidenzia il barocchismo politico del nostro Paese e l’elevatissimo tasso di bizantinismo presente nello stesso giornalismo. Più il linguaggio diventa un frasario ricercato e complicato e più diventa vuoto. Anche il pessimo uso che è stato fatto dell’italiano in questi anni – le tre I – ci spiega perché siamo arrivati a un passo dal baratro. Ecco perché, per quello che possono fare, mi sento di consigliare la consultazione di due manuali pubblicati da Il Mulino: Scrivere l’italiano e Parlare l’italiano. Indro Montanelli amava ripetere che per scrivere bene l’italiano è necessario parlarlo bene. Aggiungerei che per scriverlo e parlarlo bene è utilissimo anche leggerlo bene e questo si può fare frequentando i classici.
Il precario stato di salute dell’italiano scritto (e orale) è segnalato anche dalla fine dell’uso del punto e virgola. Nessuno usa più il punto e virgola. Non si sa più quando usare questo segno di interpunzione. Nessuno sa più a cosa serva. Se si fa ricorso al punto e virgola significa che si sta disegnando una delle faccine con cui su Facebook o su WhatsApp o altre simili applicazioni si simboleggia un sorriso o un occhiolino. Ma l’uso del punto e virgola nell’italiano scritto è deceduto. Morto. Questo articolo ne vuole celebrare la scomparsa avvenuta, probabilmente, con la fine del secolo scorso, la morte di Montanelli e l’affermazione di Internet (non a caso una delle richiamate tre I). Imbattersi nell’uso del punto e virgola è un fatto più unico che raro. Mi è capitato questa mattina leggendo il pezzo di Ernesto Galli della Loggia che in fondo al fondo, intitolato per l’appunto “Cartoline dall’Italia, vi fa ricorso così: “Ma allora la politica seppe rappresentare realmente il collettore e l’organizzatore delle energie di cui il Paese traboccava; e i suoi esponenti seppero essere, anche moralmente, all’altezza del loro compito”. Addio, o mio elegante e utile punto e virgola.