Per la collana iLibridiSanniopress è uscito il secondo libro di Giancristiano Desiderio: Croce sannita. Il volumetto è composto da una serie di profili di uomini di cultura sanniti legati a Benedetto Croce: Francesco Flora di Colle Sannita, Alfredo Parente di Guardia Sanframondi, Riccardo Ricciardi di Airola, Antonio Fusco di Torrecuso, Sebastiano Maturi di Amorosi. Completano lo scritto un saggio di Francesco De Sanctis e un’appendice sulle figure di Fausto Nicolini e Salvatore Valitutti. Qui di seguito pubblichiamo il capitolo dedicato ad Alfredo Parente, il filosofo di Guardia Sanframondi. Il volumetto a Benevento si trova alla libreria Masone e all’edicola di Santa Sofia, a Caserta alla libreria Guida, a Sant’Agata dei Goti presso l’edicola Iannucci.
Giocando con il cognome si potrebbe dire che Alfredo Parente si sentiva strettamente imparentato con le verità della filosofia di Croce tanto che confuse le conquiste e verità sue con quelle. Era considerato il più crociano dei crociani, il caposcuola del “crocianesimo militante”, il crociano ortodosso che fondò la Rivista di studi crociani, mentre in realtà fu un pensatore originale che seppe impiegare il metodo di lavoro di Croce per creare cose nuove. Basterebbe citare solo la sua critica musicale che non è solo una meccanica applicazione dell’estetica crociana all’arte della musica, ma una estensione articolata del pensiero filosofico all’esperienza musicale. Il filosofo di Guardia Sanframondi non fu solo musicologo e per oltre un quarantennio critico musicale sulle pagine de Il Mattino, ma – come giustamente ha scritto un altro crociano sannita, ma di diversa generazione, Corrado Ocone, tracciandone un profilo in appendice all’Antologia degli scritti – fu un filosofo, ebbe virtù politiche e fu un ottimo organizzatore culturale. Nonostante ciò il nome di Alfredo Parente è subito associato, volendone diminuire il valore, al “crocianesimo militante” come se fosse stato un semplice ripetitore di pensieri altrui mosso solo da intenti sterilmente polemici e nulla più. Come una volta disse lui stesso ad Ernesto Paolozzi, furono i tempi in cui visse e operò – il fascismo prima e la polemica quasi la lotta anticrociana degli anni ’60 e ’70 poi – a imporre il dovere morale e politico di dichiararsi “crociano ortodosso”. Il che, come sappiamo e come giustamente aggiunge proprio Paolozzi nella prefazione all’Antologia, avrebbe dato fastidio allo stesso Croce, il quale però non avrebbe potuto disconoscere che la polemica anticrociana investiva la stessa tradizione critica del pensiero italiano. Il crocianesimo militante di Parente, dunque, se non ci fosse stato lo si sarebbe dovuto inventare perché è anche grazie a quelle battaglie e a quella trincea se successivamente c’è stata la giusta rivalutazione dell’opera di Croce e il suo “ritorno” nella cultura italiana. Parente, purtroppo, non fece in tempo a vedere i frutti del suo stesso lavoro, a vedere il passaggio dalla trincea alla palestra in cui il pensiero di Croce è ridiventato uno strumento di lavoro per i bendisposti. Parente morì infatti nel 1984 al termine della stagione anti-crociana e alla vigilia dell’epoca post-crociana.
Riprendere oggi in mano i libri del pensatore di Guardia Sanframondi significa ritrovarsi con un lavoro autonomo e una filosofia storicistica che seppe essere stile di vita. Come tanti altri crociani, Parente non fu un professore ma visse di giornalismo e critica. La storia delle filosofie da università non è cosa che gli riguarda. Solo quando Croce fondò l’Istituto di Studi Storici ricoprì una “cattedra” di filosofia e metodologia della storia dalle cui conversazioni ebbe origine il suo libro Il tramonto della logica antica e il problema della storia che, per la sua stessa natura, non è solo un testo di logica ma anche di etica. Parente sapeva benissimo che la filosofia non è la manualistica e il pensiero storicistico di Croce, in cui la filosofia è diventata storia pensata, è un modo di essere al mondo e di sentire il mondo. A volte penso che la Rivista di studi crociani, che uscì puntualmente ogni tre mesi per vent’anni, dal 1964 al 1984, dovrebbe essere ripresa in un modo o nell’altro. Perché se è vero che non è questo il tempo della militanza e che i problemi di oggi non sono quelli di ieri, è però altrettanto vero che l’esercizio del libero pensiero è indispensabile per vivere bene. In questo la rivista dalla copertina verdina e il suo direttore che tante volte, anche in ambiente crociano, sono stati trattati con sufficienza se non snobbati, rappresentano ancora un esempio. Perché Parente visse il pensiero e quella rivista fu proprio una palestra dove esercitò pensiero e azione.
Apro il primo numero della Rivista di studi crociani e leggo un passo finale del saggio di Parente intitolato Mito del superamento e concetto di storia: “Questo concetto aiuta, oltre tutto, a spezzare il cerchio chiuso della repubblica filosofica, inibita ai non filosofi, e a dare di essa cittadinanza a quanti pensarono anche una sola volta con trasparente ragione, ‘con mente pura’, un punto o un aspetto dell’universale, e scoprirono una verità, com’è toccato e tocca ai poeti e ai politici e agli uomini di fede, i quali sono tutti microcosmi e tutti vivono nella verità, sebbene non siano filosofi di vocazione o professionali, costretti cioè a filosofare sempre, di ufficio, quasi condannati ai lavori forzati della filosofia, anche quando l’ispirazione tace. Ed è poi un cattedratico pregiudizio, quando non è una difesa delle cattedre contro gli indesiderati, che filosofo degno sia colui che componga un originale e serrato sistema, o abbia l’originalità di scoprire e di aggrapparsi alla originalità altrui, e non colui che in saggi occasionali, stimolati cioè soltanto da vive e concrete occasioni storiche della realtà e della cultura, risolva problemi della verità”. La prosa di Parente scorre fluida perché è innervata su un pensiero vero e vivo, cioè ancora capace di formare. E’ strano pensare – ma lo dico solo per paradosso – che un filosofo antiscolastico e anticattedratico come Alfredo parente sia così ricco e utile proprio per la scuola e il lavoro educativo. “Il filosofo – continua ancora il pensatore sannita dando l’immagine di cosa sia il lavoro di un filosofo – che s’inserisce nella serie storica dei filosofi e delle menti pensanti che affrontarono i problemi del mondo, non è chiamato a ricostruire funditus o, tanto meno, a capovolgere ogni volta la visione del reale, ma ad aggiungere, nella misura che gli è concessa, il proprio contributo di pensiero al patrimonio di pensieri adunati dalla storia. E la dignità del pensiero non consiste nella geometrica e astratta coerenza formale dei pensieri dei singoli filosofi”. Pensateci un po’: che razza di filosofia può mai essere quella in cui i filosofi sono bravi nel comporre una “coerenza formale dei loro pensieri”? Il lavoro filosofico è ben altra cosa perché ha a che fare con l’affare intricato della vita e della storia e qui ognuno può portare più umilmente e più degnamente “il proprio contributo di pensiero al patrimonio di pensieri adunati dalla storia”. Quale è stato il “contributo” di Alfredo Parente?
Le cose che ha scritto e pensato Parente sulla vitalità e sulla moralità, sulla terza scoperta dell’estetica di Croce, sulla logica e la storia, la dialettica, sono concetti e schiarimenti che si inseriscono in un patrimonio di pensieri dato ma sono anche un’innovazione e il contributo di pensiero che il critico sannita seppe apportare come lavoro di mente e di vita morale. Se la categoria della Vitalità veniva nell’ultimo Croce allo stesso tempo a rinfrescare la filosofia dello spirito e a metterla in crisi, proprio qui Parente seppe dare il suo contributo rimettendo ossia ripensando il rapporto tra la forza del vitale e l’opera di armonizzazione della volontà etica che è chiamata quasi a svolgere la funzione di categoria delle categorie perché limitando e misurando permette al bello, al vero, all’utile di essere tali senza cedere alla tentazione e cadere in altro. Se il circolo delle quattro categorie – il filosofo delle quattro parole dicevano i gentiliani del “circolo ermeneutico” di Croce – tendeva a spezzarsi proprio con l’emergere impetuoso della Vitalità e quindi a scomporre nuovamente il tutto nel dualismo di anima e corpo, Parente riconsidera il circolo alla luce dello speciale rapporto tra la vitalità e la moralità in cui il vitale – il corpo – non è il male o il negativo o il disvalore ma è il bene nella sua forza di promozione della vita che attende di essere contemperata ed equilibrata dalla moralità. Il male, si può dire, è ciò che non sa passare in altro, è ciò che resiste alla natura del circolo che vuole l’equilibrio delle cose e la circolazione di aria fresca per il rinnovo della vita e della sua opera buona. Il male è ciò che persiste anche in una forma quando è tempo ormai di una nuova opera. Ecco perché mi sento di dire che la vera opera di pensiero di Alfredo Parente – il suo contributo – è da ricercarsi proprio nella sua vita operosa prim’ancora che in una teoria o in una innovazione perché – e lo ripeto con le sue stesse parole – ciò che effettivamente conta non è l’astratta coerenza formale dei pensieri dei singoli filosofi.
C’è un modo per avvicinare l’opera di Alfredo Parente e cercare di intenderla senza cadere nei pregiudizi e negli stereotipi: il crociano più crociano, il crociano ortodosso, il crociano militante, il crociano più fedele e via di questo passo. C’è un modo ed è quello di chiedersi perché Parente fu così interessato al modo in cui lavorava Croce. In Il tramonto della logica antica ci sono alcune poche pagine intitolate sbrigativamente “Parentesi biografica”, ma sono qualcosa di più di una parentesi o di una sosta per prender fiato. Qui Parente dice come la filosofia di Croce, proprio perché così legata e sposata con la storia e la vita pratica, non nasca da letture speculative e letteratura critica, ma dalle “inquietudini della vita pratica del filosofo, da un suo bisogno di trovare la propria via e la linea della propria condotta, di orientarsi e di dirigere i propri atti”. Il modo, dunque, di lavorare di Croce non è estraneo alla sua filosofia, semmai è il lato visibile del suo pensiero mentre si fa. Parente riporta un passo di Croce ripreso dagli Ultimi saggi e non a caso intitolato “Il ‘Filosofo’”. E’ bene riprenderlo perché Croce vi discorre del suo lavoro in filosofia che è la filosofia come storia e schiarimento dei concetti direttivi della storiografia: “Questa nuova orientazione data alla filosofia (nuova ma non cavata capricciosamente dalla mia testa, sì invece col tirare le somme delle speculazioni precedenti, e in specie di quelle della filosofia da Cartesio in poi) reputo il più generale risultato della mia vita di studioso”.
A queste parole Parente può giustamente aggiungere: “Qui è tutto il significato della biografia del Croce come allegoria vivente del suo svolgimento mentale colto nel suo punto di origine”. Questo spiega l’interesse di Parente per la vita stessa di Croce perché è proprio in quella vita pratica che nasce il bisogno di vivere ed operare con coscienza. Se vogliamo dire che Parente è stato il più fedele tra i crociani lo possiamo dire, ma nel senso che è colui che è stato fedele alla vita filosofica cercando di vivere secondo filosofia. Era talmente caro questo tema al filosofo di Guardia – e anche in questo nome c’è una sorta di benevola ironia – che vi ritornerà più volte nelle sue pagine. In Croce per lumi sparsi c’è proprio un capitolo – bellissimo – intitolato “Come lavorava Croce”. Parente inizia col dire che l’operosità di Croce, che tradotto in cifre significa circa ottanta libri e edizioni varie quindi traduzioni e poi la rivista e gli articoli e quant’altro per non citare il lavoro politico, che quella operosità si immagina sia il frutto di uomo sempre piegato da mane a sera sui libri e che nulla sapesse della vita reale e concreta di tutti i giorni. Nulla di più falso e lontano dalla vita di Croce che nella sua stessa persona e nella concezione della vita era semplicemente la negazione di quegli spiriti metà uomini e metà sedia che sono inchiodati al tavolo da studio e perdono il contatto con la realtà. Come lavorava Croce? “Non di rado, e fino ai suoi tardi anni, egli studiava in piedi appena chino sul tavolo od anche seduto, ma spesso sull’orlo della sedia, cioè in una posizione così precaria da lasciar prevedere che presto se ne sarebbe rimosso. Infatti poche volte si fermava lungamente all’angolo preferito del suo ampio tavolo di lavoro: una vitale inquietudine stimolava del pari la sua mente e la sua persona fisica. Leggeva alcune pagine, si levava, faceva un giro, ora lento ora improvvisamente accelerato, per la stanza o da una stanza all’altra, come cercando in quel movimento una schiarita del suo problema o uno stimolo alla memoria; tornava a sedersi e fermava un appunto; si rialzava, si distendeva su di un’ampia poltrona di cuoio immergendosi per qualche tempo nella lettura, si risollevava di scatto per cercare in un gran mazzo di chiavi quella di uno dei cento e più scaffali della sua biblioteca, e correva a prendere uno dei suoi ottantamila volumi o a consultare un dizionario, un’enciclopedia, un repertorio bibliografico; tornava a sedere e riprendeva a scrivere, e tra un periodo e l’altro, rileggendo il già scritto, e come dialogando pacatamente con se stesso o con un invisibile interlocutore, gesticolava con piccoli cenni del capo e delle mani; accendeva una sigaretta, gettava uno sguardo sulla posta appena giunta, sfogliava compiaciuto un bel volume nuovo o esaminava con ansiosa curiosità una vecchia edizione rara lungamente cercata ed attesa e appena speditagli da un antiquario; poi tornava alle sue cartelle e ricominciava la sua rapidissima lettura con i suoi occhi acuti e mobilissimi, o la non meno rapida scrittura, e così via”.
La giornata del filosofo non consisteva solo di studio. Tutt’altro. C’erano le visite, la famiglia, gli amici, il pranzo che il più delle volte si prolungava e c’era tutta la vita che gli brulicava intorno, la fitta corrispondenza, i diari. La stanza dove lavorava non era un luogo appartato e silenzioso. Il centro di Napoli non è un luogo silenzioso e “la stanza da lavoro sporgeva con due ampi balconi su uno dei crocicchi più rumorosi e vocianti della vecchia Napoli” e ancora oggi, magari con rumori un po’ diversi ma neanche tanto, è una via trafficata e non si direbbe luogo ideale per la riflessione. Sta di fatto che Croce proprio in questo luogo scrisse le sue principali e maggiori opere e svolse il suo quotidiano lavoro che non era dunque fuori ma dentro la realtà, non distante ma vicino alla vita, non estraneo ma interno alla storia. Anzi, il principio stesso della filosofia crociana vuole che il pensiero nasca dalla vita e che il filosofo metta in gioco la vita: senza questa condizione non c’è filosofia. Se ora si guarda il lavoro filosofico di Alfredo Parente – il giornalismo, la critica, i libri, la politica prima e dopo il fascismo, l’organizzazione culturale e la rivista, ma anche la scultura e la pittura – si vedrà che quella che è stata vista quasi come fedeltà cieca e come “crocianesimo militante” in effetti era vita filosofica alla quale era semplicemente estranea la concezione della filosofia come disciplina accademica. Lo storicismo di Croce collegato com’è alla tradizione critica e umanistica del pensiero italiano, da Vico a De Sanctis, costituisce quell’etica della libertà che il non-conformista Alfredo Parente sentiva come la fonte della storia e della vita civile.
Trovo di grande efficacia questo articolo di Giancristiano Desiderio in onore di Alfredo Parente. Spero vivamente che questo contributo importante possa contribuire a salvare l’Archivio di questo straordinario figlio di Guardia Sanframondi.
Antonio De Lucia