Piove da stamane all’alba. Senza fine. Il 27 aprile di otto anni fa non pioveva. C’era il sole sull’autostrada del sole che percorrevo tra il sogno e la realtà tornando a casa dai miei. Il cuore aveva cessato di battere alle 7 del mattino. Era l’ultimo dei centravanti: mio padre. Il telefonino sul comodino suonò poco prima delle 8 nella casa di via del Pellegrino a Roma, a un passo da Giordano Bruno. Era Sara: “Stai tornando?”. “No, perché”. “Scusa, scusa…”. Non capivo niente. Fu un attimo. Capii tutto.
Mio padre da ragazzo aveva giocato da centravanti. Lo fece anche nella vita. Mio padre usava un nome curioso e bello per indicare il centravanti: centrobecco. Ho fatto qualche ricerca ma non sono riuscito a risalire all’origine del nome. In ambienti calcistici e sportivi non lo conosce praticamente nessuno. E’ un modo di dire in uso solo a Sant’Agata dei Goti e solo nella Sant’Agata dei Goti dei tempi d’oro del calcio. Quando c’era un campo sportivo al centro del paese. Un cuore. Oggi a nessuno verrebbe da dire o urlare: “Ma chi c’è a centrobecco?”. Una volta capito che la parola si riferisce al ruolo del centravanti si intuisce il senso: è il giocatore che è al centro dell’area di rigore avversaria e deve beccare la palla per metterla dentro, che deve essere beccato dai suoi compagni di squadra, che deve essere imbeccato per segnare. Centrobecco è una delle definizioni più belle che abbia sentito per esprimere il senso del ruolo del centravanti. Forse, l’ha inventata proprio mio padre. Mi piace pensarlo. E’ una parola di senso compiuto. In una parola c’è tutto. Una parola espressiva. Ti fa vedere il centravanti anche se non c’è più. Come se il gioco non fosse mai finito. Come se stesse colpendo ancora la palla al volo, quella mezza girata che gli piaceva tanto.
La scomparsa del centravanti si è realizzata con il Grande Barcellona di Pep Guardiola. Qui il centravanti classico non può giocare più e l’ultimo centravanti classico si chiama Ibrahimovic. Quel centravanti anomalo che è Messi non gioca al centro dell’area di rigore avversaria. Lì, nel Barcellona, non gioca nessuno. Lì c’è un vuoto. Come se ci fosse un taglio di Fontana sulla tela, dice un po’ esagerando e un po’ ironizzando Mario Sconcerti. Non vi gioca nessuno perché quello spazio deve restare vuoto per consentire al giocatore al momento opportuno – il kairos, secondo i Greci – di inserirsi e chiudere così in rete la “profondità” dell’azione. Il giocatore che si inserisce è imbeccato ossia servito dai compagni e deve mettere la palla dentro. La squadra che ha di fatto ucciso il centravanti è la stessa squadra che lo fa rinascere ogni volta. Il centrobecco scompare e riappare. E’ ormai la sua natura.
A mio padre il Barcellona di Messi e Guardiola sarebbe piaciuto. Anche nella sonora sconfitta contro il Bayern. Il centrobecco aveva il senso della vittoria perché conservava il senso della sconfitta. E’ un po’ come dice Lucio Dalla di Ayrton Senna: “Non ci sono né vincitori né vinti, la gente amava me”. Il pilota brasiliano lo si amava al di là delle vittorie. Lo si amava perché sapeva correre. La vita è una corsa che ha in sé la meta. Ci sono giocatori che con il loro modo di essere in campo riescono a rappresentarla, la vita. Mio padre amava il Gre-No-Li e ne decantava le lodi. Il trio dei calciatori svedesi: Gunnar Gren, Gunnar Nordhal e Niels Liedholm che fecero grande il Milan degli anni Cinquanta. Nordhal vinse la classifica marcatori per ben cinque volte e ancora oggi è il terzo miglior marcatore di sempre nella storia del campionato italiano. La storia del centrobecco iniziò lì. Il Milan degli svedesi racconta un’altra epoca e un’altra epica del calcio, come un’altra stagione fu quella del Milan degli olandesi. Il centrobecco era milanista, amava Nereo Rocco. Che signore, Nereo Rocco. Di lui si è detto, fino allo sfinimento, che ha inventato il catenaccio e il gioco all’italiana: difesa, difesa, difesa. In realtà, Rocco ha inventato il calcio moderno con i terzini e i difensori centrali, la difesa a quattro. Ma il catenacciaro al Milan vinse molto perché le sue squadre erano offensive. Nel Milan della prima Coppa dei Campioni giocavano Mora, Pivatelli, Rivera, Altafini e quel Dino Sani che giocava in un fazzoletto di terra regolando la squadra. Nella secondo Coppa giocavano Hamrim, Sormani, Rivera e Prati. Tutta gente con i piedi buoni che sapeva tener palla. In fondo, che cos’è il tiqui taca del Barcellona di Guardiola se non il catenaccio di Rocco spostato di cinquanta metri? Guardiola ha portato il pressing non a centrocampo ma a ridosso dell’area di rigore avversaria, ha accorciato la squadra lasciandole un gran vuoto dietro le spalle, ha portato attaccanti, centrocampisti e persino difensori a pressare i difensori avversari costringendo le due squadre a giocare in una sola metà campo con il portiere del Barcellona che nella sua solitudine sembra il portiere di Umberto Saba. Per giocare così c’è bisogno prima di tutto di far girare la palla, di controllarla con grande maestria e farla girare, allargando continuamente il gioco e stringendolo con accelerazioni e profondità. Aspettando che da qualche parti spunti fuori ancora una volta il centrobecco.