Sfogliando in una libreria di Caserta, prima di acquistarlo, l’ultimo libro di Pierluigi Battista, La fine del giorno (Rizzoli), mi è tornato alla mente un episodio di qualche tempo fa. Parlavo al telefono con il caporedattore delle pagine della cultura di un quotidiano di cui taccio il nome e il discorso cadde sulla fuga d’amore di un noto professore e storico italiano che, più vicino ai sessant’anni che ai cinquanta, lasciò la moglie per una ragazza. Dissi: “Beh, a quell’età capita spesso”. Mi disse: “Beh, non solo a quell’età”. Son passati più di dieci anni, forse quindici, e la vita degli uomini maturi che avanzano verso la vecchiaia è stata messa sottosopra dal Viagra che riproduce il sesso in laboratorio e dà nuovo vigore a quello che un tempo si sarebbe chiamato “vecchio porco” e che ora crede di aver riacquistato l’energia dei suoi anni verdi e riabbraccia la vita disprezzando e non vedendo ciò che gli altri, forse invidiosi, vedono: è ridicolo. Il protagonista maschile del libro, P. – che altri non è che lo stesso Pierluigi Battista che racconta se stesso in terza persona – sta lavorando ad un libro su questo argomento scivoloso e ha accumulato sulla sua scrivania già tanto e tanto materiale attingendo sia alla letteratura – Philip Roth, Pasternak, Nabokov – sia alla cronaca politica, italiana e internazionale, quando arriva la notizia che sconvolge la sua vita: Silvia, la moglie, cinquantuno anni, ha un cancro polmonare: è in stato avanzato e non è operabile. Tutto cambia. Tutto perde senso. O, forse, tutto riacquista senso, pur nella “strage delle illusioni” che nella coscienza di P. anticipa “la fine del giorno”, come recita una poesia del male di Baudelaire.
I libri di Pierluigi Battista hanno un filo comune: indagano il rapporto tra gli intellettuali e il potere. Ma questo testo è un’altra cosa, anche se rimane la riflessione sul limite del potere che, forse, è la vera chiave di lettura delle pagine. Come si avverte sulla bella copertina, che è di per sé un atto d’amore, il libro è un diario. Non un diario intimo ma un diario degli affetti e dei pensieri che legano due persone che si amano e che si devono lasciare perché la morte sta arrivando per portarsi via una di loro. Prima dell’uscita del libro, Battista era timoroso, e forse lo è tutt’ora, perché non sapeva cosa effettivamente avesse scritto e soprattutto come. Troppo diverso il diario dai saggi precedenti e troppo diverso dai “pezzi” politici per il Corriere. Oggi, dopo la lettura del libro, gli posso dire che ha scritto un libro che è allo stesso tempo privato e pubblico: “privato”, perché è semplicemente la storia di un uomo e di una donna che si amano e vivono il tempo della fine della vita insieme ma non dell’amore; “pubblico”, perché la storia con tutte le sue implicazioni e tutte le sue esperienze così umane e comuni – amore, malattia e morte – parla a tutte le vite e tutte le coscienze. Quando entra in scena il cancro, l’imperatore del male, dunque l’annuncio della morte, il diario entra nel vivo. In fondo, è sempre stato così: la morte, ossia quella possibilità prima e ultima che azzera tutte le altre possibilità che siamo, priva la nostra esistenza di un senso e al contempo ci dà la possibilità di averne uno o di illuderci di averlo inteso. Fosse anche quello dell’insignificanza. Quando nella vita di Silvia e P., che scorre nella sua normalità e nel piacere di vivere insieme, compare il cancro con la diagnosi della fine – a tutti gli effetti una “condanna a morte” come dice Magda Szabò nella Ballata di Iza – il cancro diventa un “destino segnato” e uno sguardo sul mondo. Tutto è filtrato dalla conoscenza del cancro, tanto che il diario può essere letto come una “metafisica del cancro” che ha lo stesso significato del libro del filosofo Sergio Givone Metafisica della peste.
Lo scrittore Francesco Piccolo, recensendo il diario sul Corriere della Sera, ha individuato la pagina risolutiva e più potente, ossia la giusta chiave di lettura, nella “storia del bicarbonato”. Il cancro curato con il bicarbonato – come suggerisce a Silvia la lettera di una signora – oppure con il veleno dello scorpione cubano. Perché qui tutto si “risolve”? Perché davanti all’impotenza della scienza – la quale, invece, se vuole essere scienza deve conservare la coscienza dell’impotenza – appare la tentazione dell’irrazionale che con la sua pre-potenza non solo distrugge la ragione ma getta nella disperazione le vite dei “malati” e dei “sani”. Questi ultimi vivono in un mondo – lo stesso mondo nel quale vivevano Silvia e P. prima del cancro – in cui la salute può contare sulla promessa della sicurezza e del benessere più che duraturo, quasi senza fine. I miracoli chimici del Viagra lo dimostrano ed è proprio questa l’immagine che un po’ tutti abbiamo del grande apparato scientifico-tecnologico: viviamo in un mondo sicuro in cui il male e la malattia sono soltanto errori o accidenti destinati ad essere corretti. La razionalità più sofisticata dà la mano all’irrazionalità che diventa mentalità da complotto – il cancro non lo si vuole sconfiggere per convenienza – quando gli “errori” si ripresentano con i loro orrori. P. non perde la ragione – “il bene dell’intelletto” – ma il cancro della moglie, colpita nel suo momento forse più bello e creativo, è la perdita di ogni illusione e la inevitabile accettazione delle cose così come stanno, nella loro insignificanza in un cielo vuoto o nel loro senso in cui brilla una crudele scintilla divina che non risparmia la sofferenza umana. La metafisica del cancro è lo sforzo intellettuale e morale di riconciliarsi con la sofferenza dell’animale morente, senza imprecare, senza inveire, senza sperare: “In epoche del passato si poteva maledire l’invidia degli dèi, o la spietatezza del Fato o gli imperscrutabili disegni della Provvidenza. Ma questa è un’epoca diversa. Si piange, e basta”.