Accetto ben volentieri l’invito di Pasquale Viespoli a discutere sul “finale di partito”. E fa piacere che un politico tutto “novecentesco” per formazione (anzi: ipernovecentesco) decida di affrontare, almeno sul piano teorico, il mare aperto che si sta aprendo avanti a noi.
Sostanzialmente tre sono i rilievi mossimi:
1) utilizzare una griglia di lettura che è dentro il “secolo breve”;
2) rimanere sospeso tra “nostalgia” e “utopia”;
3) rimanere ancorato ad una “ideologia” hard.
Queste critiche presuppongono, evidentemente, una lettura ben precisa della “liquidità” (Bauman) che stiamo vivendo (ma non discuterò di questo né del concetto di postmoderno).
Provo a rispondere a ai tre punti.
1) Il mio percorso intellettuale, nato nell’alveo della sinistra “eretica” (penso in particolare al poeta/intellettuale più influente della mia formazione: Franco Fortini), a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si è indirizzato a quella elaborazione (spesso di matrice comunista: Cassano, lo stesso Revelli) che ambiva a “superare” le secche in cui si era impantanata la teoria e la prassi di trasformazione del mondo (ciò reso possibile anche dai mutamenti planetari avviatisi nello scorcio del secolo). Come testimonia anche la mia raccolta di saggi (In quieta ricerca), ho tentato di coniugare le “eresie” più disparate, nella certezza che i vecchi strumenti fossero inservibili. Tra le parole-chiave che chiudono idealmente il libro ci sono parole molto lontane dal «perimetro novecentesco»: giustizia sociale, decrescita conviviale, pensiero meridiano, democrazia partecipata. Che dovrebbero essere correlate (coniugate!).
2) Viespoli parla di “nostalgia” e “utopia”, ingenue e oniriche nello stesso tempo… Lo fa probabilmente sconcertato dall’evocazione di modelli cui guardare per le nuove pratiche politiche da creare. Io evocavo la “polis” ateniese (V secolo a.C.), le assemblee americane (XVIII secolo), i club rivoluzionari (1789), i soviet russi (1905, 1917). Viespoli è troppo colto per non aver intravisto, in filigrana, quanto scrive la Arendt in Sulla rivoluzione. Per quella che resta, a mio avviso, la massima pensatrice politica del XX secolo, queste esperienze erano quanto di più avanzato mai tentato nella storia umana nella costruzione di una vera democrazia. Che è esattamente il compito che ci aspetta, nel momento in cui la democrazia rappresentativa e la democrazia dei partiti sono giunti al loro “finale” (invero poco decoroso). Sono esperienze non solo novecentesche (a parte quella dei soviet). Il problema è altro. Diciamo che la mia lettura della storia, memore di Walter Benjamin, è di tipo non lineare. Quelle “spore” disseminate nei secoli possono essere riattivate, nutrire il presente. È un delirio, risponde Viespoli. Ma, come scrive Albert Camus: «Che cos’è infatti la storia se non lo sforzo umano e disperato di dar corpo ai nostri più profetici sogni?» (Ribellione e morte). Per altro, come Rifkin, sono convinto che ogni “rivoluzione” (o mutamento di paradigma) veda procedere di pari passo una crisi (e nuove emergenze di possibilità) energetica e una crisi degli strumenti comunicativi. La rete è lo strumento di una partecipazione attiva e informata alla cittadinanza planetaria.
3) Il punto più complesso cui rispondere per la polisemia del termine “ideologia”. Come lo intendiamo? Come visione distorta della realtà? Come insieme organico di “dogmi”? Ancora una volta mi permetto di far riferimento al mio libro (di cui farò dono al mio stimato interlocutore). In esso ho chiarito come un percorso serio di ricerca non possa che rassegnarsi a rimanere sempre tale: ricerca, inquieta, senza approdi che non siano provvisori. Accontentandosi di collocare dei cippi lungo il percorso, per poter essere consapevoli di quanto a lungo si è camminato. Voglio dire che sicuramente non sono un “ideologo” nel senso della certezza dogmatica. La mia, allora, è una visione distorta della realtà? È possibile. Ma non credo che esista una “scienza” capace di illuminare in maniera definitiva le dinamiche sociali ed economiche del nostro tempo. Non esistono fatti ma solo interpretazioni. Se dovessi scegliere una parola per definire la mia visione, direi: speranza. È quasi scontato che il “realismo” (penso a una persona intellettualmente affine a Viespoli: Giancristiano Desiderio) veda in questa posizione fuga dalla responsabilità, delirio, fanciullesca regressione. Mi guardo intorno. Vedo un paese devastato. Vedo un mondo devastato. E so che non basteranno le risposte ragionevoli. So che è doveroso, radicati nei momenti più luminosi e sconfitti della storia, lanciarsi «a nord del futuro», senza paura.
Preghiera arrogante
Conservaci la rivolta, il lampo, l’accordo illusorio, una risata per il trofeo scivolato di mano, magari l’intero e lungo fardello che segue, il cui incomodo ci conduce a una nuova rivolta. Conservaci la primula e il destino.
René Char