A due settimane da un voto che funziona da spartiacque nella storia italiana, e che in periodizzazione di massima potrebbe segnare il discrimine fra la cosiddetta “seconda repubblica” e la “terza repubblica”, ma più in generale il passaggio ad una politica che già un paio di anni fa, in occasione delle amministrative beneventane, definii “2.0”, cerco, per punti, di chiarire alcuni snodi cruciali.
1) STRUMENTI: il mio tentativo di capire quanto sta accadendo intreccia tre strumenti, che elenco senza ordine di importanza: a) la lettura dei quotidiani, dei blog, dei siti, dei giornali on line; b) la lettura di libri (e qui parlerò in particolare di uno di essi); c) la discussione in rete, soprattutto su Facebook. Non so se è personale idiosincrasia, ma oramai ho espulso dalla formazione delle mie “doxai” politiche i talk show e in generale l’intero mondo televisivo.
2) GIUDIZIO: delle quatto cose che auspicavo, tre si sono realizzate in una modalità che ha lasciato sconcertato anche me per l’incastro perfetto: a) la sconfitta della destra moderata, della nuova DC montiana, che aveva lanciato un’OPA sulla politica italiana, per insipienza e scarsa lungimiranza della classe dirigente del Partito Democratico; b) il fallimento del progetto moderato di “Italia: Bene Comune”, destinato ad allearsi, in nome delle politiche di “austerity”, con la destra moderata; c) una buona affermazione del Movimento 5 Stelle. Scrivevo su queste pagine: « Nella migliore delle ipotesi un clamoroso exploit elettorale del Movimento a 5 Stelle (che seguo con interesse e curiosità da anni) potrebbe aprire immediatamente un nuovo capitolo della storia italiana». La quarta cosa auspicata – e non realizzatasi – era la presenza di un drappello di parlamentari facenti capo a Rivoluzione Civile, per me “scelta obbligata” da un punto di vista elettorale, perché unica portatrice di una prospettiva di “lotta di classe” (dopo la lotta di classe, per citare Gallino). A differenza di moltissimi amici, dunque, nell’apparente disordine emerso dalle urne, e secondo l’auspicio del 22 febbraio, ho trovato «eccellente la situazione», apertura di una nuova stagione politica, gravida di pericoli ma anche di opportunità. Mi pare che, finalmente, si sia spezzato l’incantesimo: è possibile pronunziare parole tabuizzate da un ventennio di egemonia del pensiero unico, a destra e a sinistra. Parole come democrazia diretta, ad esempio, o reddito di cittadinanza. A differenza di molti amici e compagni, credo che il successo clamoroso del Movimento a 5 Stelle sia un’opportunità benefica per la sinistra, perché essa si rigeneri, ritrovando la sua unica ragion d’essere. Riacquisti quella dimensione “ragazzina” e sognatrice che Giancristiano Desiderio mi rinfaccia spesso, considerandola una malattia infantile, senza capire che senza questo afflato alla giustizia, ad un mondo più giusto, la “sinistra” diventa davvero sinistra.
3) DIAGNOSI: il libro che mi ha guidato in questo passaggio di fase, e di cui suggerisco caldamente la lettura, è “Finale di partito” (Einaudi). L’autore è uno dei miei “maestri eretici”, Marco Revelli, il cui “Oltre il Novecento” (Einaudi, 2001) è stato strumento decisivo per decifrare il passaggio di secolo e millennio. Il titolo del libro ne esplicita il contenuto. Siamo alla fine della politica novecentesca, costruita sui partiti di massa. La tesi, forte, fortissima, viene prima accompagnata dall’analisi dei dati elettorali più recenti (il libro è stato scritto lo scorso anno, dunque sono le elezioni amministrative come quelle di Parma, Napoli, Milano). Da essi emerge un vero e proprio esodo dell’elettorato dalla rappresentanza “novecentesca”: i partiti appaiono dei «vasi infranti». La tesi di Revelli è stata clamorosamente confermata dall’emorragia di voti che PD e PDL hanno riscontrato nelle politiche (al di là del mito della “rimonta” berlusconiana: si è trattato, invece, di una “dismonta” democratica…). Revelli poi sente il bisogno di riandare all’origine dei partiti novecenteschi, nati sotto l’infausta profezia di Robert Michels, socialista poi approdato al fascismo, secondo il quale essi sono dominati da una “ferrea legge”: essere necessariamente guidati da una ristretta oligarchia e trasformarsi sempre più in “macchine” autoreferenziali. E, sebbene Revelli non lo faccia, è bene intrecciare questa spietata analisi con le di poco posteriori riflessioni di Simone Weil, riportate in auge da Grillo (“Manifesto per la soppressione dei partiti politici”, Castelvecchi). Il Novecento è il secolo dell’organizzazione: essa caratterizza i tre grandi ambiti della vita moderna, l’amministrazione, la politica e la fabbrica fordista. Inevitabile, dunque, che i mutamenti produttivi (qui è evidente il lascito marxista nel post-marxista Revelli) avvenuti a partire dagli anni Settanta-Ottanta (con l’avvento del paradigma “toyotista”, più flessibile) incidessero tanto sull’amministrazione, che viene snellita, quanto sui partiti, non più grado di sostenere i costi “fissi”. Tutti ricordiamo, ad esempio, le affermazioni veltroniane sul “partito leggero”. L’ultimo capitolo del libro è il più interessante, interrogandosi sulla possibilità di una “democrazia” oltre i partiti, giunti ad un livello di corruzione che, secondo Revelli, prescinde dall’immoralità degli uomini che ne sono responsabili, conseguenza necessaria di un apparato oramai totalmente autonomo dal mondo “esterno” e dimentico, come il messaggero di Kafka, del “messaggio” da recapitare: divenuti puro “scopo in sé”, a prescindere dalla coloritura politica. È possibile una democrazia senza partiti, dunque? Lerner, qualche giorno fa su «Repubblica», ha risposto seccamente di no (http://www.gadlerner.it/2013/03/04/il-movimento-5-stelle-e-la-democrazia-senza-partiti). Revelli, che è impegnato da oltre un anno nell’esperienza di ALBA, invece, auspica una transizione in questa direzione, constatando, tra l’altro, che – prima dell’avvento dei partiti di massa – la democrazia utilizzava altre modalità (per esempio quella “parlamentare”). È successo in passato, perché non dovrebbe essere possibile, in forme nuove, in futuro? Su questa possibilità, dunque, si innesta il nostro lavoro. Io credo che sia necessario riattivare spore dormienti della cultura e delle prassi occidentali: dalla “polis” ateniese al “Contratto sociale” di Rousseau, dalle assemblee che prepararono la rivoluzione americana ai club del 1789 francese, dai soviet del 1905 e del 1917 alle forme organizzative “dal basso” di Occupy. Insomma, quanto sta accadendo in Italia, laboratorio, come sempre, per l’intera Europa, come col fascismo o col berlusconismo (ma speriamo stavolta con esiti liberatori), ci dice che “la storia non finisce”. Georg Wilhelm Friedrich Hegel scrisse, negli anni della Restaurazione, che la monarchia rappresentativa era il “non plus ultra” dell’organizzazione politica, che la storia era, dunque, finita. E, invece, ciclicamente la storia avanza, spesso per strappi. Forse la cultura umana (e le tecnologie di “rete” che sono nate) sta rendendo, clamorosamente, possibile una partecipazione più attiva del “cittadino/volontario” alla vita civica. Era l’auspicio della più grande pensatrice politica del XX secolo, Hannah Arendt. Mi pare, dunque, che il tempo del “reggitori-filosofi”, tecnici o professionisti della politica, stia volgendo al tramonto. Sta a ciascuno di noi diventare attivo promotore di questa benefica trasformazione, ciascuno portandovi la propria storia personale.