Il dato – così si dice – incontrovertibile del risultato elettorale è solo questo: il Movimento 5 stelle è il primo partito italiano. Beppe Grillo ne è il capo. Il particolare che Grillo sia un uomo di spettacolo, un comico con l’arte della drammatizzazione, non è secondario. La cosiddetta Seconda repubblica ha lavorato tenacemente sugli aspetti teatrali e comunicativi, che sono da sempre una parte dell’arte politica, ma che in questi due ultimi decenni sono diventati non un’appendice ma il tutto della politica. Non poteva non finire così: il potere a un comico. E lui, il comico, il potere già se l’è preso. Il pallino è nelle sue mani.
Davanti alla sua casa di Sant’Ilario, a Genova, l’autore e l’interprete di programmi di culto come “Te lo do io il Brasile” o “Te la do io l’America”, non solo ha indicato in Dario Fo il suo candidato al Quirinale, ma ha anche detto, in pratica, “ve lo do io il governissimo”. Infatti, Grillo – ossia, ripetiamo, il capo del primo partito italiano – da un ipotetico governo di unità nazionale che metta insieme tutti si è già tirato fuori annunciando che «durerà 7 o 8 mesi, non di più». Ma si può fare un governo di unità nazionale senza il primo partito nazionale? Si può fare un governissimo senza il partito che ha vinto le elezioni? L’auto-esclusione di Grillo sembra risolvere il problema. Ma solo in parte. Perché è fin troppo evidente che Grillo auto-escludendosi sta conservando nelle sue mani il potere di scrivere la sceneggiatura del dramma italiano.
Il governo di unità nazionale è con ogni probabilità non solo una possibilità ma anche un dovere. Lo impone non solo la crisi politica ed istituzionale ma anche quella economica e sociale. Tuttavia, chi darà vita ad un governo di nuova responsabilità nazionale lo dovrebbe fare non tanto con la consapevolezza che si tratti di una svolta politica quanto con la presa di coscienza di una conversione. Possibile? Il governo non dovrebbe nascere con l’idea di salvare capre e cavoli perché è l’unico possibile ma con la convinzione di rendere un servizio alla democrazia italiana e alla vita delle istituzioni. La differenza è enorme. Nel primo caso, infatti, la crescita elettorale di Grillo diventerebbe esponenziale; nel secondo caso, le forze politiche che hanno condotto la Repubblica italiana al fallimento lavorerebbero nell’interesse nazionale con la consapevolezza di uscire di scena. Il governo di unità nazionale dovrebbe adottare e applicare una buona parte del programma del Movimento 5 stelle, senz’altro la parte “antipolitica” che riguarda il taglio di privilegi, finanziamenti, prebende, enti. La situazione lo impone, ma gli uomini e le donne che sono chiamati a pensare e agire in ambito politico e istituzionale non sembrano dare l’impressione di aver capito il dramma di cui sono – siamo – parte.
Piaccia o no, il movimento di Beppe Grillo non segna la fine ma l’inizio di qualcosa. Prima di esserci un cambiamento politico, in campo c’è un mutamento generazionale, antropologico, culturale. Il cambiamento politico è evidentissimo: l’affossatore della Prima repubblica e fondatore della Seconda – Antonio Di Pietro – è fuori, la destra si è estinta, la sinistra segue a ruota e il centro è irrilevante. La politica è stata ridotta a comunicazione e oggi i “grillini” governano la comunicazione con la capacità d’essere allo stesso tempo assenti e presenti, mentre la recita autistica dei partiti che hanno fondato la Seconda repubblica alimenta quotidianamente il movimento delle stelle che stanno a guardare come gli altri si fanno e ci fanno del male.