Benevento è una città ferita che versa sangue e rischia di morire dissanguata. La ferità è più grave del previsto perché non riguarda solo il corpo e il suo vigore ma anche l’anima e la sua intelligenza. Il colpo non le è stato inferto dall’esterno ma dall’interno. Per questo oggi, con il sopraggiunto momento elettorale, la situazione si mostra grottesca: la stessa classe politica e dirigente che ha ferito a morte la città si presenta al suo capezzale come l’equipe medica che le promette di salvarle la pelle mentre la moribonda vorrebbe togliersi tutti dalle palle ma non sa come fare.
La campagna elettorale si fonda sul libro dei sogni. Ma la crisi di Benevento si legge sui libri contabili. Mancano all’appello decine di milioni di euro, mentre non manca la percentuale a doppia cifra della disoccupazione giovanile, degli stagionali e degli stagionati padri di famiglia. In una città con una borghesia parassitaria, la macchina della burocrazia comunale è usata come una sorta di prodotto interno netto con il risultato deleterio di vanificare il governo politico, distruggere l’amministrazione tecnica e insterilire le forze sociali. A fronte di questo disastro, le parole appaiono ironiche, surreali e grottesche. Le cronache mi informano che il sindaco Pepe ha detto che “la macchina organizzativa al Comune va riformata”. Ma il sindaco, che è al suo secondo mandato, non ci deve fornire bilanci di previsione ma bilanci consuntivi. Non deve dire cosa si deve fare ma cosa ha fatto. Il candidato già eletto – Umberto Del Basso De Caro – non usa mai parole a caso e si deve ritenere che quando ha detto, dopo aver ascoltato il sindaco, che Pepe “vuota il sacco” lo abbia detto a ragione veduta. Ma la ragione, oltre all’avvocato difensore del Pd, la vorremmo vedere anche noi che sospettiamo, con ottimi motivi, che la ragione beneventana sia una ragione errata più che errabonda.
La cena dei miracoli di Pesco Sannita, che ha visto seduti allo stesso tavolo i controllati e i controllori, avrebbe divertito Orazio e Giovenale che sapevano trasformare il disgusto in gusto. Se Palazzo Mosti avesse i conti in ordine, la cena sarebbe andata giù come acqua liscia naturale. Invece, è diventata una grande metafora della città ferita: un’amministrazione fuori controllo in cui i controllori sono sotto il controllo dei controllati. Nemmeno ai tempi di mamma Dc si sono raggiunte queste prelibatezze. Forse, la Dc lo faceva e non lo diceva. Ma da chi diceva di andare al governo per moralizzare – come fa sempre la bella signora sinistra – ci si sarebbe aspettati maggiore educazione. Invece, il Pd, che più di un avvocato difensore ha bisogno di una toga rossa, è passato dalla “questione morale” alla “questione estetica” con le briciole di pane che, come neve, dal tavolo di Pesco cadono su Benevento.
Come uscirà Benevento dalla condizione di minorità in cui è caduta? Cercare la risposta nelle elezioni è rovistare nel posto sbagliato. Il prodotto elettorale non è il frutto di una selezione ma di una imposizione. E’ un frutto avvelenato che intossica il primo elemento della salute della democrazia: la libertà di scelta. La città ferità riuscirà a risollevarsi solo se non si accontenterà più della mediocrità. Non è una strada facile. Forse, è impossibile. Benevento non è una macchina sociale e morale che genera eccellenze e talenti: al contrario, investe la sua buona volontà proprio nell’accontentarsi della mediocrità. La città ferità si rispecchia nella città mediocre.