Se la sinistra è infantile, la destra è senile. Se la sinistra è bimba, la destra è rimbambita. Affezionata com’è ai colonnelli, la destra sembra essere uscita sempre or ora da uno di quei film della commedia all’italiana di serie B intitolati “Il colonnello Buttiglione diventa generale”. Ciò che una volta D’Alema disse della sinistra – del resto D’Alema è ambidestro, lo potete mettere tanto a sinistra quanto a destra – va bene anche per la destra: “Siamo figli di un dio minore”. La destra nel tempo ha sviluppato un sentimento di innamoramento per la sua divinità minore – la sconfitta – e ne ha ricavato una “cultura dei vinti”. Che ciò accadesse, forse, non solo era naturale ma anche giusto perché è giusto testimoniare il senso di un pezzo di storia nazionale che altri per convenienza negano. Ma la destra è andata ben al di là del giusto e del necessario fino a contrarre la sindrome di Stoccolma in cui, com’è noto, la vittima s’innamora del carnefice. La sinistra, con furbizia e cinismo, ha fatto valere la falsa equazione “destra uguale fascismo” condannando la destra al fuorigioco eterno. E la destra ha fatto della sua storia una storia senza tempo: un mito. Ha imitato la sinistra, ma mentre la sinistra era sugli altari, la destra era nella polvere. Per uscire dalle fogne e ritornare a riveder le stelle, la destra avrebbe dovuto liberarsi dalla comoda equazione degli antifascisti comunisti per rimettersi in gioco con una cultura interamente anti-totalitaria. L’esodo è effettivamente avvenuto nella cosiddetta Seconda repubblica ma – particolare di rilievo – con un’operazione di sdoganamento in cui di fatto ancora una volta la destra ha conservato la sua condizione minore. I colonnelli non sono mai diventati generali e una volta che il regime berlusconiano è finito, il battaglione è si è dissolto e i colonnelli sono stati degradati sul campo a sergenti di giornata.
Oggi la destra italiana non è tanto finita quanto sfinita. La battuta di Prezzolini – le destre non sono tre ma trentatre – è diventata realtà: la destra si è atomizzata o polverizzata. Ciò che resta è solo la diaspora di un mondo missino che è vittima non tanto del generale Berlusconi quanto dei colonnelli di un’alleanza nazionale, più alleata che nazionale, che non hanno saputo mettere a tema i due valori più importanti di ogni destra: Stato e libertà. La colpa della destra, in fondo in fondo, non è neanche interamente sua: nella Prima repubblica era tenuta in freezer e pronta all’uso, nella Seconda è stata repentinamente scongelata e portata al governo praticamente senz’arte né parte. Inevitabilmente è stata una delusione per sé e per gli altri. E’ arrivata al governo troppo presto e contemporaneamente troppo tardi. Appunto, rimbambita. E’ diventata vecchia inseguendo il falso mito della giovinezza. Non ha saputo parlare di futuro ma solo di futurismo (che è stata una sonora stronzata della letteratura italiana, diciamo le cose come stanno, a parte qualche cosa di Palazzeschi e, oggi, qualche rarità libraria). Il fasciocomunista Antonio Pennacchi una volta ha scritto che i colonnelli avrebbero dovuto solo ringraziare Fini per averli tirati via dalle fogne. Un giudizio ingeneroso, ma qualcosa di vero c’è. La destra oggi dovrebbe essere lì dov’è Fini, invece lì dov’è Fini c’è solo una cosetta o una casetta che fin dal nome – Fli – sembra un antidepressivo. Ma il rimbambimento non è uno stato depressivo ma fisiologico e non c’è farmaco che tenga.
Uno dei maggiori difetti della destra italiana è la cultura del capo. Fin quando c’è il capo, c’è la destra. Quando non c’è più il capo, la destra si disperde. E’ accaduto pari pari anche a Benevento: fino a quando Pasquale è stato Viespoli si è avuta la destra al governo, da quando Viespoli non è più Pasquale la destra non solo non è al governo ma non è neanche all’opposizione. E’ come se fosse scomparsa o entrata in letargo, in attesa che arrivi ancora una volta chi – un Capo – la desti e la porti prima a fare opposizione e poi al governo. Ma questa estemporaneità della destra è tipico di una politica poco contemporanea che attende il Capo invece di diffondersi nei capi ossia nelle teste, nelle intelligenze. La cultura del capo è letale per la destra che per esistere deve farsi istituzione. Questa è la più grave sconfitta della destra che è riuscita a realizzare quasi l’opposto della sua natura: la dis-unità d’Italia. La destra, infatti, a differenza della sinistra non pensa se stessa come Partito ma come Patria che, però, per essere ha bisogno della storia dello Stato nazionale. E’ questa la destra migliore che ha avuto la sua espressione non nella politica ma nella cultura e solo raramente, quando è stato necessario, si è fatta politica.