Che cosa sono le cose? Non c’è domanda più filosofica ed esistenziale. Non a caso è la prima domanda che fanno i bambini quando iniziano a parlare: che cos’è? In fondo, Socrate porta sul piano della speculazione del pensiero quanto i bambini dicono in modo del tutto spontaneo. Ancora: non è un caso che anche i maggiori filosofi dicano che per una ricerca della verità è necessario recuperare un senso della meraviglia o dello stupore che ne è alla base. Non vi è dubbio che nella domanda «Che cosa sono le cose?» vi sia dentro un senso di meraviglia o il tentativo di suscitarla perché, in fondo, le cose sono ciò che sono e ne abbiamo così stretta familiarità che l’ultima cosa che ci possono suscitare è stupore o straniamento. Eppure, un po’ di meraviglia la si può suscitare rileggendo meglio la domanda. Vediamo.
Nella domanda la parola “cosa” è presente due volte: al singolare e al plurale. La domanda sembra chiedere che cosa siano le cose plurali, quelle concrete e solide, tangibili e visibili, quelle che tocchiamo con le mani, che urtiamo con i piedi o i gomiti, insomma, per usare un’altra parola un po’ fuorviante ma comunque utile, le cose sono gli oggetti. Ma il senso della domanda passa inevitabilmente attraverso la cosa al singolare che è, per dirla con un titolo famoso, «la questione della cosa». Il linguaggio ordinario, che è la fonte del linguaggio della filosofia, lo dice continuamente: “Che cosa dici?”; “La cosa non è questa”, “Intendiamoci bene su questa cosa”.
La cosa, dunque, è «il cuore di ciò di cui si parla», è il problema da pensare, è la “questione” o, se si vuole, la ragione, il senso o la “causa” che poi è la parola latina da cui deriva la parola italiana cosa. Insomma, se vogliamo dirlo in due parole possiamo dire che la cosa è il concetto universale e le cose sono le cose esistenti (per dirlo alla maniera di Heidegger, che fa un gran giro ma finisce col dire le stesse cose della tradizione occidentale che prova a mettere, anche giustamente, in “questione”, la cosa è l’essere e le cose sono gli enti). La lingua tedesca ha due parole diverse per dire cosa e cose: Sache e Ding. La lingua italiana, invece, ha una sola parola per dire tutte e due le “cose”: cosa. Dunque, la lingua italiana sembrerebbe svantaggiata, equivoca, addirittura non-filosofica, mentre sono considerate lingue filosofiche per eccellenza il tedesco e, naturalmente, il greco e in greco cosa si dice pragma. In realtà – e realtà vuol dire “l’insieme delle cose” – proprio perché la parola cosa è usata tanto per il concetto quanto per gli oggetti è particolarmente carica di senso riuscendo contemporaneamente a legare e pensare cose e cosa, oggetti e concetti. Perché per pensare e conoscere fino in fondo le cose non dobbiamo pensare solo il concetto, come fanno nella maggioranza dei casi i filosofi, soprattutto i razionalisti, o solo gli oggetti, come fanno i fratelli dei filosofi razionalisti, ossia gli empiristi, bensì vanno pensate insieme la cosa e le cose. Senza la cosa reale non potremmo neanche porre la questione della cosa e senza la cosa da pensare non potremmo realmente pensare e conoscere le cose.
La parola concetto è equivoca perché con essa s’intendono le caratteristiche comuni delle cose molteplici. Ad esempio: esistono vari tipi di rose ma il concetto di rosa è unico ed è ciò che, su una base comune, ci porta a riconoscere le rose. Sennonché, questo tipo di concetto, senz’altro molto utile, è empirico: si basa sull’applicazione di uno schema mentale. Ma quando si pensano le cose si usano schemi di questo tipo? Se così fosse il pensiero altro non sarebbe che un’applicazione di schemi e regole e non farebbe altro che ridurre il mondo e le cose alla propria immagine. Se il pensiero fosse l’applicazione di uno schema estratto per astrazione dalla realtà, allora, la questione della cosa – ossia ciò che Gadamer chiama la cosa controversa o la cosa contesa – non si porrebbe neanche. Invece, come sappiamo non attraverso il sapere astratto ma attraverso il sapere dell’esperienza e del dialogo, sia con gli altri sia con se stessi, si pone la questione della cosa.
Ma se nel pensare genuino e concreto non si applicano schemi concettuali, allora, “cosa” veramente si fa? Si svela la cosa nel senso che si prova a togliere o far cadere i pregiudizi che la coprono o velano. Lo si può dire anche con altre parole della tradizione filosofica occidentale: si afferma l’essere negando il non-essere oppure si mostra l’essere della cosa considerando ciò che la cosa non è. Va da sé che ciò che copre la cosa – i pregiudizi e il non-detto – sono da prima inconsapevoli per poi diventare consapevoli ma sarebbe vano credere di togliere sempre e comunque tutti i pregiudizi. Ecco perché non si tratta di aver ragione su una cosa – è questo ciò che perseguono soprattutto i sofisti – ma di comprendere la cosa ed è anche per questo che è del tutto inutile immaginare di avere per sé quella cosa strana che è “l’ultima parola”.
Nel dire cosa sono le cose, inevitabilmente facciamo uso delle parole il cui senso è proprio la rivelazione e rilevazione della cosa delle cose. La concezione del linguaggio che oggi va per la maggiore vuole che le parole siano arnesi, strumenti, etichette e si scarta, anche con ineleganza, l’idea che proprio nel linguaggio prendono corpo i rapporti vitali. Non è detto che si debba parlare per intendersi, a volte basta un’occhiata, un gesto per comprendere. La comprensione di noi stessi e delle cose riposa sulla linguisticità del nostro essere che fa parlare noi e le cose. È attraverso il linguaggio, che non è solo quello delle parole, che si comprendono le cose. La verità della cosa e delle cose, dunque, non è una dimostrazione che poggia su una scienza ma su un’arte retorica che non significa arbitrio o chiacchiera ma parola giusta, ragionevole, calibrata.
Del resto, neanche Aristotele quando parla della verità delle cose o degli enti fa riferimento al sillogismo, sì, piuttosto, all’enthymema che è ciò che è degno di essere tenuto in considerazione ossia ciò che è credibile, ragionevole e si può accogliere. Aristotele è molto più vicino a Platone di quanto non si creda e, da par suo, Platone non è facile da ricondurre a una lettura univoca, come vorrebbe Heidegger che ne fa il padre-padrone della metafisica occidentale da cui dover uscire per pensare effettivamente l’essere delle cose.
In un suo dialogo – il Politico – Platone fa esplicito riferimento a due diverse possibilità di misurare le cose: la prima consiste nell’avvicinarsi alle cose con un parametro o uno schema che le renda disponibili e assoggettabili, la seconda è quella che coglie il giusto criterio che è appropriato di per sé e rivela le cose in ciò che sono.
Non è difficile vedere in questa doppia misura delle cose la differenza tra un sapere che ritiene di poter disporre di tutte le cose – compresa quella cosa centrale che sia chiama “vita” – e assoggettarle e un altro sapere che pensa che vi sia un limite nel misurare e padroneggiare le cose che una volta superato ci fa cadere non solo nell’illusione della conoscenza delle cose, che come una rosa non sbocciano e si chiudono a noi, ma anche nel contrappasso di diventare noi stessi schiavi a disposizione delle cose.
tratto da Liberalquotidiano.it