(Sanniopress) – Caro Giancristiano, la mia cifra è l’inquietudine. È naturale che essa si trasmetta ai miei interlocutori. Altrimenti, come potrei svolgere (si parva licet!) la mia funzione di “tafano” in una città che, per storia, è sicuramente «un cavallo di razza»? Dunque, accetta di buon grado un colloquio «che non avrà mai fine». Non credo che, però, il nostro sia dialogo fra sordi. Infatti, il tema della “burocratizzazione” della scuola e del suo superamento ci accomuna: ancora una volta, però, la soluzione che prospettiamo è diversa. Ritengo inoltre che anche tutto ciò che scrivi sia “filosofia politica”, ed il pregio che riconosco da sempre al tuo lavoro, che lo rende tanto interessante rispetto alle banalità che vengono prodotte dagli intellettuali della destra italiana.
Provo a rispondere al tuo decalogo:
1. Destra/sinistra: il mio libro raccoglie scritti di due lustri. La questione destra/sinistra – l’ho scritto ripetutamente – mi ha da sempre appassionato. C’è stato un momento in cui ho creduto che quelle categorie potessero essere superate. Poi, grazie anche all’importante libro di Revelli, la mia posizione (oramai neanche tanto recente) è che tali categorie devono essere conservate ma riempite di nuovi contenuti.
2. e 3. Ti riconosco la capacità di semplificare e rendere semplici argomenti complessi. Stavolta la semplificazione l’ho volutamente fatta io: nella coscienza comune esistono scuole “pubbliche” e scuole “private”. In esse (ad esempio nel La Salle di Benevento) lo Stato non c’entra: la selezione del corpo docente viene contrattata privatamente, senza utilizzare graduatorie o far riferimento a concorsi. È di questo tipo di scuola che si parla quando si dice “scuola privata”. E di essa che io dico che è più che legittima la sua esistenza (prevista dalla Costituzione) ma non il suo finanziamento a carico della comunità attraverso il prelievo fiscale
4. Ti faccio notare, en passant, che proprio il tuo punto 4 contraddice il 3: nel 3 scrivi «Le scuole private non sono amministrate dallo Stato ma sono paritarie e dunque statali anch’esse in tutto e per tutto altrimenti non potrebbero esistere». Nel punto 4 citi l’articolo 33 della Costituzione che parla di «scuole non statali».
5. L’esistenza di scuole “private”, quasi tutte in Italia di orientamento confessionale, dimostra che non c’è monopolio dell’istruzione.
6. Con il potenziamento, attraverso finanziamenti alla pari, la scuola pubblica diverrebbe inevitabilmente la scuola “dei poveri”, come in America.
7. I giovani vanno aiutati a prendere consapevolezza. Bisogna essere nei loro processi di maturazione civica e politica. Non per blandirli, ma per offrire loro strumenti.
8. Il movimento degli studenti e quello dei docenti hanno un obiettivo naturalmente comune: la difesa della scuola “pubblica” dagli attacchi (bipartisan!) dell’ultimo ventennio.
9. La fine del valore legale del titolo di studio, in un paese come l’Italia (fortemente voluto dalla “testa pensante” della destra in materia di scuola, cioè la Aprea), spianerebbe la strada ad una società, se possibile, ancora più iniqua, dove le famiglie benestanti potrebbero garantire ai propri rampolli l’eccellenza formativa in virtù del loro privilegio (economico) di partenza. In barba a qualunque meritocrazia.
10. La storia italiana (anche recente: i terribili fatti della Diaz) mostra come ci siano eccessi da parte delle forze dell’ordine che devono essere possibilmente prevenuti, sicuramente puniti.
Ieri ho ascoltato Paolo Ferrero, a Benevento, per presentare il suo libro sulla crisi in atto. Tra le altre cose condivisibili, ha detto che le élite decisionali europee, sempre meno democratiche (per l’opacità della rappresentanza, per la condizione ibrida in cui si trova politicamente l’Europa) hanno deciso di smantellare il Welfare, soprattutto scolastico e sanitario, per creare nuove fette di mercato (sanità e scuola privata). Guardando dall’alto ciò che accade nella scuola, ricordo un monito brechtiano: «Compagni, parliamo dei rapporti di proprietà». E invito te che sei un fautore del “realismo” a guardare, mai come ora, i processi economici in atto. Da essi può scaturire o una completa liberalizzazione (che tu auspichi e che io invece considero foriera di ulteriori disastri) o un ritorno a politiche keynesiane (ipotizzate ieri da Ferrero) o nuove modalità che alcuni pensatori definiscono del “comune”, tutte da inventare, al di là della contrapposizione fra pubblico e privato. Ma intanto mi tengo stretto lo stato sociale: le sue storture sono infinitamente preferibili a quelle di uno stato minimo.