(Sanniopress) -In attesa che Strama cominci a vincere qualcosa di serio, così ci leviamo dalla testa Josè Mourinho e la nostra esterofilia calcistica, vorrei aggiungere una chiosa non all’uomo del “Triplete” e al pallone che resta pur sempre rotondo, ma al commento di Giancristiano Desiderio sul saggio di Nicola Sguera e su Martin Heidegger.
Premesso che la storia del calcio insegna che in pochi sanno fare il “cucchiaio”, ma che ogni tanto a qualcuno sul dischetto del rigore viene in mente di fare come Totti, ebbene anche nel corso della Storia a tutto tondo ogni tanto qualcuno si prende “la libertà” di autoproclamarsi “Uomo della Provvidenza”.
Insomma, può effettivamente capitare, come dice Desiderio, che la verità non sia “più un rispecchiamento ma una creazione, è storia o, per usare l’enfasi hedeggeriana, evento” e, di conseguenza, ogni tanto qualcuno si sente investito di un “Fuoco divino” e decide di forgiare il destino dell’Umanità “a propria immagine e somiglianza”.
Ed è così escono fuori i disastri tipo il “cucchiaio” di Reginaldo Maicosuel in Udinese-Braga dello scorso mese di agosto o certi discorsi strampalati dal balcone di Palazzo Venezia il 10 agosto del 1940.
In definitiva (e lo dico con tutta la più profonda ed estatica ammirazione per la “Scienza delle logica” di G. Hegel), sarebbe opportuno ri-andare all’Illuminismo inglese e scozzese che (e non s’è mai capito il perché) sono sempre stati trattati con molta sufficienza in questa Italia schizzinosa di “santi, poeti e navigatori”.
Questo perché, secondo me, è proprio lì che bisogna andare a cercare la risposta a quella svolta della storia, auspicata da Sguera, che sia capace di “liberare” l’uomo (dalla tecnologia, dallo schiavismo mercantile e da mille altre piaghe). In altre parole, bisogna giocare sempre per la squadra: smettiamola con i “cucchiai”; altrimenti è meglio darsi al tennis o allo sci che sono sport individuali. Ma un individuo non può stare fuori dalla società e, dunque, per farla breve, aveva ragione Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury (1671 – 1713), che riteneva essere «consona all’interesse particolare ed al bene individuale l’opera volta al bene collettivo; e se una creatura si astiene dal contribuire a questo bene nuoce a se stessa e non coopera neppure alla propria felicità e al proprio benessere. Diventa così nemica di se stessa e non può altrimenti essere buona o utile a sé se non operando per il bene della società e di quel tutto di cui è parte. Onde la virtù, che di tutte le cose eccellenti e belle è la più amabile; che è il fondamento e l’ornamento dell’umano; che regge la società, conserva l’unione, l’amicizia e la solidarietà tra gli uomini; che rende felice e fiorenti le nazioni e le famiglie; mentre se manca, tutto ciò che è degno, cospicuo, grande e bello perisce e rovina: quest’è l’unica qualità così benefica per ogni società e per l’umanità intera, è parimenti la felicità ed il bene di ogni singola creatura, l’unica dote per cui l’uomo può essere felice senza la quale dev’essere miserabile. E così la virtù è il bene, il vizio è il male di ciascuno» (Cfr., “Saggio sulla virtù e il merito”, a cura di E. Garin, Torino, 1945, pag. 198).
Utopia, a sua volta, quella di Lord Shaftesbury? Può darsi, ma senza quella solidarietà sono sempre esplosi i conflitti collettivi e quelli individuali nella testa delle persone.