di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Luigi Einaudi collaborò con il Corriere della Sera per i primi venticinque anni del Novecento in modo intenso e produttivo. Naturalmente, la sua attenzione andava alle cose economiche e la sua competenza ne fece la firma di punta del quotidiano che all’epoca usciva in due edizioni: una mattutina e una serale.
Una raccolta degli articoli del maggior economista italiano del XX secolo sono ora usciti in una pregevole pubblicazione della Fondazione del Corriere della Sera: due volumi – Luigi Einaudi e il Corriere della Sera – che mettono insieme gli articoli e il ricco carteggio di Luigi Einaudi con Luigi Albertini, storico direttore e proprietario del Corriere della Sera (i volumi sono a cura di Marzio Achille Romani e sono arricchiti da tre interventi: “Vite parallele: Luigi Einaudi – Luigi Albertini” dello stesso Romani; “Un archetipo del giornalismo economico” di Giuseppe Berta e “Formare l’Italia nuova: gli articoli di Einaudi sul Corriere della Sera” di Giovanni Pavanelli.
L’idea che Einaudi ebbe del suo impegno con il Corriere e la concezione che nutrì del giornalismo è messa in chiaro sin dalla prima pagina quando nella Prefazione si ricorda che il 28 novembre 1925 Luigi e Alberto Albertini furono costretti a cedere la loro quota parte dell’azienda del Corriere e vennero definitivamente estromessi dal ponte di comando del giornale milanese.
Il giorno seguente Luigi Albertini pubblicava un “pezzo” con cui prendeva commiato dai lettori e tracciava un quadro del lungo periodo passato alla direzione del quotidiano, dei problemi affrontati e risolti, delle battaglie combattute in nome dei principi liberali che ne avevano ispirato l’azione. Chiudeva l’intervento confessando che si separava dal suo giornale «con il cuore gonfio di amarezza, ma a testa alta», perdendo un bene che gli era «supremamente caro», ma mantenendo intatto un patrimonio spirituale che gli era ancora più caro e soprattutto facendo salve la sua dignità e la sua coscienza.
Con i due Albertini lasciavano il quotidiano diversi collaboratori e redattori, anche Luigi Einaudi. Proprio pochi giorni prima Einaudi aveva annunciato a Pietro Croci, il nuovo direttore, la sua intenzione di porre fine alla collaborazione lunga ormai un quarto di secolo, non ritenendo opportuno continuare a collaborare «con uomini con cui non si condividono ideali e sentimenti», essendo ormai uscito di scena chi «con lo stimolo continuo, con l’ardore del suo entusiasmo (l’aveva) persuaso che il sacerdozio giornalistico era ugualmente nobile ed alto come il sacerdozio scientifico, e degno di essere esercitato accanto a questo, di cui esso è figlio».
Il regime di Mussolini prendeva sempre più forma e mano a mano che sopprimeva libertà cadevano o si ritiravano uomini e cose che dell’Italia liberale erano stati protagonisti ed interpreti. Il direttore Albertini ed Einaudi, anche con il loro sodalizio giornalistico, furono parte non piccola della cultura dell’Italia libera e proprio il lavoro per il Corriere della Sera fu pensato e fatto nel segno della conoscenza dei «problemi della libertà» – come li definiva Benedetto Croce – del rafforzamento degli ideali e degli istituti liberali, della libera iniziativa e dell’irrobustimento della primato della coscienza libera e attiva.
Il ricchissimo carteggio tra Albertini ed Einaudi testimonia la fertilità della loro collaborazione: erano d’accordo su molte cose, ma su altre si dividevano e, come spesso accade (forse accade sempre) il contrasto arricchiva ulteriormente il lavoro comune. Ciò che li univa era, evidentemente, la formazione della nuova Italia ossia della borghesia italiana ai principi del libero mercato, dell’intrapresa individuale, delle virtù e delle convenienze della libertà economica di contro ai sempre presenti monopoli, protezionismi, statalismi. Certo, Einaudi esprima il tutto con una maggior convinzione dottrinaria, mentre il giornalista cercava di guardare tanto ai principi quanto alla realtà.
Luigi Albertini era un gran giornalista e il suo lavoro con Einaudi, come testimoniano le lettere, fu rispettoso ma si svolse su un campo di reciproco rispetto e parità. E poi, quella che fu la battaglia di Einaudi – ossia l’eccessiva presenza dello Stato nell’economia e nella società dopo il cambiamento decisivo della prima guerra mondiale – fu anche la battaglia di Albertini.
Per questa lotta Einaudi coniò anche il nome adatto: la battaglia contro i Padreterni ossia coloro che ricoprendo incarichi pubblici le pensavano tutte pur di impedire e rendere impossibile la fine di monopoli, protezionismi, ingerenze, statalismi. Si sarà capito perché gli articoli di Einaudi e il fitto scambio epistolare con Luigi Albertini siano preziosi per noi loro contemporanei: la battaglia contro i “padreterni” è fin troppo attuale. Non solo la pratica ma anche l’idea di doversi scappellare, di dover ricorrere ai bolli, ai permessi, di far domanda, di riempire moduli su moduli, di ricevere autorizzazioni prima di avviare un’attività e di mettersi a fare la cosa più giusta e doverosa che si possa fare, lavorare, appartiene all’Italia di ieri e di oggi. Perché quella battaglia, purtroppo, Einaudi ed Albertini non la vinsero di certo. Non a caso dagli interventi di Einaudi e dalle sue analisi economiche – e non solo economiche – della società italiana nacquero poi le celebri «prediche inutili» che proprio il Corriere della Sera ha recentemente riproposto.
Le lettere che Einaudi ed Albertini si scambiarono ricoprono un periodo che va dal 1894 al 1925. Costituiscono un punto di osservazione particolare per “leggere” l’età giolittiana, gli anni della guerra mondiale, la crisi dello Stato liberale e l’ascesa di Mussolini al potere. In particolare, sugli anni della transizione dall’Italia liberale al fascismo proprio il Corriere svolse un ruolo di appoggio per la politica di Mussolini. Luigi Albertini guardava alla possibilità che i fascisti offrivano: ricacciare indietro il pericolo rosso e la minaccia della rivoluzione socialista o comunista. Gli interventi posti al principio dei due volumi avallano questa interpretazione che è tanto classica quanto schematica.
I fascisti andavano per le spicce, ma era, secondo gli antisocialisti come Albertini, il prezzo da pagare per evitare il peggio o cadere dalla padella nella brace. Oggi – oggi – sappiamo che un’illusione era la minaccia della rivoluzione e un’illusione era l’idea di potersene sbarazzare gestendo il fenomeno fascista per poi costituzionalizzarlo. Ma ciò che è per noi una chiara illusione, fu per chi visse e giudicò all’epoca cosa fin troppo reale. È bene in cose e faccende come queste non cadere nell’errore dell’anacronismo e giudicare il passato con il presente.
Proprio sul Corriere della Sera Giovanni Belardelli ha avuto modo di scrivere: «Non si può, insomma, col senno di poi imputar loro di avere preso troppo sul serio il pericolo che veniva da sinistra alle istituzioni liberali. Così come non convince interamente il tradizionale rimprovero mosso a liberali come Albertini ed Einaudi per non aver compreso subito la natura intimamente sovversiva del movimento mussoliniano (che ai loro occhi diventerà chiarissima dopo l’assassinio di Matteotti».
Naturalmente, la mancata comprensione vi fu ma non dipese «dai limiti di un liberalismo accecato dall’antisocialismo e dal desiderio di difendere i propri privilegi di classe» ma dalle cose e circostanze stesse che per noi oggi che le studiamo e ricostruiamo appaiono chiare ma che chiare non erano per il motivo semplice che si venivano allora formando.
Del resto – e l’osservazione è quanto mai importante – anche un futuro e strenuo oppositore di Benito Mussolini come Gaetano Salvemini, nel febbraio del 1923, riteneva «utile al Paese» che il fascismo liquidasse le «vecchie co»”.
Il carteggio tra Albertini e Einaudi è quanto mai istruttivo proprio per gli anni in cui Mussolini e il fascismo sono sulla scena ma il regime illiberale è ancora di là da venire.
Un esempio, forse un po’ lungo ma senz’altro istruttivo. Albertini ad Einaudi il 31 ottobre 1922 (occhio alla data): «Caro Einaudi, ieri c’è stato un momento in cui sembrava certa la tua assunzione al ministero del Tesoro; ne ero costernato per il Corriere, felice per te e per il paese. Sennonché Mussolini, per pressioni di banche, di siderurgici e simili, o perché vuole troneggiare nel ministero e non ama di avere intorno uomini di valore (ciò che è il suo difetto e anche quello di molti italiani) all’ultimo momento ha ritirato il telegramma che stava per spedirti invitandoti a recarti a Roma e ci ha messo quello sciocco di Tangorra, il quale non conta nulla e non saprà che pesci pigliare».
E continua: «Quando riprenderemo la libertà di parola – e spero che questo avvenga domani – pubblicheremo un primo articolo politico sul ministero Mussolini e su ciò che è avvenuto nei giorni passati. Ti assicuro che certa roba, vista sul posto, non dà che disgusto profondo, per cui diremo a Mussolini parecchie verità.
Per esempio, la costituzione del suo ministero è semplicemente ridicola. Ha incluso i rappresentanti della democrazia sociale che è la peggiore di tutte le democrazie, scartando le altre tre; non ha messo nel gabinetto nessun tecnico di valore che possa, al Tesoro, alle Ferrovie, alle Poste, alla Guerra, sanare il deficit finanziario; non ha diminuito il numero dei ministeri, anzi li ha accresciuti. Tutto ciò lo faremo notare noi».
Quindi suggeriva: «Ma a me sembra che ci sarebbe posto per un tuo articolo, anonimo se ti pare, data la delicatezza della tua posizione, che dica chiaro ai fascisti ciò che bisogna fare nel campo economico se si vuole rialzare il paese. Deve essere un articolo eloquentissimo e sintetico.
Finora si è fatta della retorica, delle parate e della sedizione. Ora ci vogliono i fatti e i fatti devono essere quelli che noi predichiamo da un pezzo, ma che si possono rapidamente riassumere ed elencare. Tu troverai certo una nota calda e trascinante che riveli le nostre buone intenzioni. Critichiamo, ma senza fegato, non avendo di mira che l’interesse nazionale». Le critiche, con o senza fegato, a Mussolini non piacevano.
(tratto da Liberal)