(Sanniopress) – La chiesa longobarda di Santa Sofia fu fondata dal duca Gisulfo e completata nel 762 dal duca Arechi II. Dal 25 giugno 2011 essa è iscritta nella Lista dei patrimoni dell’Umanità dell’Unesco. Sorge sulla piazza precedentemente omonima ed oggi intitolata a Giacomo Matteotti.
La chiesa venne edificata nel periodo di massimo splendore della Langobardia Minor, comprendente i ducati di Spoleto e Benevento e così chiamata per distinguerla dalla Langobardia Maior, nell’Italia Settentrionale. Le due entità si connotavano anche per una vita politica diversa l’una dall’altra: più frammentata la Langobardia Maior, in quanto spezzettata in una miriade di ducati e gastaldati, ed invece più stabile la Langobardia Minor, facente capo alle due summenzionate città. Arechi II nel corso dell’VIII secolo arricchì di monumenti la città di Benevento e la chiesa, intitolata alla Santa Sapienza (Agìan Sophian) come l’omonima chiesa di Costantinopoli (pare che l’idea sia stata dello storico Paolo Diacono, eminenza grigia di Arechi), divenne il tempio nazionale dei Longobardi che si erano rifugiati nel Ducato di Benevento dopo la sconfitta dell’ultimo loro re Desiderio ad opera di Carlo Magno, nel 774. La chiesa ospitò le reliquae langobardorum gentes. Inoltre ad essa Arechi annesse un monastero femminile benedettino, alle dipendenze di Montecassino, con a capo la propria sorella Gariperga. L’abbazia fu retta da badesse per circa 150 anni: Gariperga (774), Eusufronia (aprile 785), Argisa (aprile 833-aprile 834; marzo 835 – ottobre 841), Ota (17 giugno 923; viene citata per l’ultima volta nel 938). A seguire vi sarà una lunga serie di preposti e abati. Il primo abate è Ursus, nel 940.
Nel corso del tempo il monastero divenne uno scriptorium di altissimo livello. In esso si usava la scrittura beneventana divenuta famosa in tutto il mondo. Nel 1119 il dotto Joannes Grammaticus redige il “Chronicon” ed inoltre fa anche terminare il chiostro, ponendo fine alla rivendicazioni di Montecassino. L’abbazia fu abbandonata dai Benedettini nel 1595. Nell’antico monastero ha oggi sede il Museo del Sannio, fondato nel 1873.
La chiesa è un mirabile esempio di architettura dell’Alto Medioevo. E’ contenuta in un circolo di soli 23,50 metri di diametro, con un nucleo centrale ad esagono ai cui vertici sono collocate sei grandi colonne, forse provenienti dall’antico tempio di Iside.
La chiesa di Santa Sofia è stata più volte rimaneggiata nel corso dei secoli ed inoltre ha subito gravi danni nei terremoti del 1688 e del 1702. In seguito al primo crollò il campanile, rovinando l’atrio monumentale costruito nel Millecento, e la cupola primitiva. Così, il cardinale Vincenzo Maria Orsini (poi papa Benedetto XIII) volle che fosse ricostruita secondo il gusto barocco. Il nuovo campanile fu costruito nel 1703, e venne collocato a pochi metri dalla chiesa, sull’attuale piazza antistante, nell’ambito delle mura che allora recingevano il convento e il giardino. Nel 1915 vi fu il rischio che esso fosse abbattuto dall’amministrazione comunale, che lo giudicava un ingombro inutile, ma Corrado Ricci si attivò presso il ministero competente affinché non venisse perpetrata questa distruzione.
Dal 1705 i lavori di restauro affidati all’ingegnere Carlo Buratti trasformarono la pianta da stellare a circolare. Furono inoltre costruite due cappelle laterali e cambiato l’aspetto di abside, facciata e pilastri. Per volere dell’Orsini furono anche rimossi gli affreschi che ricoprivano interamente l’interno. Di questi restano solo alcuni frammenti con storie di Cristo e della Vergine. Di straordinaria modernità è l’affresco La Visitazione alla Vergine, che ritrae la Maddalena in visita alla Vergine, cui tocca il ventre mentre è incinta del Figlio. Gli altri affreschi rappresentano l’Annuncio a Zaccaria, Zaccaria muto, e l’Annunciazione.
Un grosso intervento di restauro effettuato dalla Soprintendenza ai Monumenti di Napoli dal 1951 al 1957 ripristinò la pianta originaria della chiesa ed eliminò le cappelle settecentesche. Restò intatta, però, la facciata barocca. I lavori furono guidati da Antonio Rusconi.
La mezzaluna sul portale d’ingresso contiene un affresco del XIII secolo, che rappresenta Cristo in trono tra la Vergine, san Mercurio e Gregorio Abbot inginocchiato.
La particolare disposizione delle colonne e dei finestroni, la collocazione stessa della chiesa, insieme a complicati calcoli geometrici, fanno sì che all’interno, in alcune ore del giorno, si creino spettacolari effetti di luce. All’interno di questa chiesa semplice e particolare, si respira un’aria di grande raccoglimento.
Il chiostro di Santa Sofia, voluto dall’abate Giovanni IV, risale alla metà del XII secolo ed è a pianta quadrangolare, eccetto uno spigolo rientrante nell’angolo nord-occidentale. Esso è costituito da ampie arcate sorrette da un totale di 47 colonne di granito, calcare e alabastro, tra le quali si aprono delle quadrifore con archi a ferro di cavallo. Sui capitelli ed i pulvini sono raffigurate scene di grande varietà e vari ne sono gli esecutori materiali. Solamente un capitello raffigura scene dell’infanzia del Cristo. Cinque sono dedicate al ciclo dei mesi, con relative scritte esplicative. Un’altra categoria contiene scene di caccia e di lotte tra uomini e animali. Ci sono anche scene di combattimento tra cavalieri, scolpite con stili assai diversi. Vi sono poi centauri ed altri animali fantastici. Altri soggetti evidenziano il richiamo ai vizi della natura umana, in particolare l’ira e la lussuria. Rari i temi biblici, come il simbolo del Tetramorfo o di San Michele che trafigge il Drago. Gli archi delle aperture sono a sesto ribassato, di gusto moresco. Esse sostengono l’ampia terrazza soprastante, su cui si aprono le stanze dell’ex monastero, oggi sale del Museo del Sannio.
Il monastero fu un centro culturale di prim’ordine, al punto che intorno all’anno Mille esso poté annoverare ben 32 dottori delle arti liberali.
La fontana che si erge sulla piazza, proprio davanti la chiesa di Santa Sofia, fu voluta nel 1806 dal governatore Louis de Beer. Fu progettata dall’architetto Nicola Colle De Vita
foto di LUCIA GANGALE