di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Addio al Senato federale. Conoscete la notizia ma vale la pena ripeterla: la commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama ha respinto l’emendamento della Lega. Dunque? Dunque non se ne farà più nulla perché è inimmaginabile che si possa ripercorrere due volte la stessa strada per andare fuori strada. Il voto di ieri – 13 a 13 con il presidente Vizzini che si è astenuto e di fatto ha votato no perché al Senato l’astensione equivale al no – dice una cosa che la saggezza popolare mette in rima così: chi lascia la strada vecchia per la nuova sa quello che lascia ma non sa quello che trova. In verità, ora sia il Pdl sia la Lega sanno benissimo anche che cosa hanno trovato: un buco nell’acqua (che con questo caldo può anche essere salutare, a patto che si voglia imparare dai propri errori). Non resta che la strada che già era stata discussa, concordata, avviata e che, a partire dalla riduzione del numero dei parlamentari, comincia a dare anche i suoi buoni frutti. A dimostrazione del fatto – se davvero ce ne fosse bisogno – che le cose buone da fare ci sono e volendole fare c’è bisogno soltanto di buona volontà nell’aggiustare, ritoccare, ristrutturare, viceversa quando non si vuole fare niente di utile e buono si ricomincia con la solita solfa della “svolta storica” e della “grande riforma” che sono cose molto simili alla visione del mondo e della politica del principe di Salina.
Il Pdl e la Lega avevano stipulato un patto. Nulla di segreto. Tutt’altro. Lo avevano siglato alla luce del sole con il più classico degli scambi di convenienza: noi votiamo il vostro semipresidenzialismo e voi votate il nostro Senato federale. Una scambio di favori. Una strizzatina d’occhio. Insomma, cose che stanno bene al mercato delle vacche ma che sarebbe bene lasciare fuori dagli accordi istituzionali che pur conoscono interessi e accordi e mercanteggiamenti ma devono pur badare ad un interesse più duraturo e civile. L’intesa non poteva stare in piedi. E non perché non si condividevano le idee di Angelino Alfano ma, al contrario, proprio perché avevano qualcosa di condivisibile: infatti, fu proprio Alfano, presentando a tempo scaduto la sua proposta, a dire che la riforma istituzionale di stampo francese doveva essere discussa e accolta e quindi sostenuta dalle altre forze politiche. Il buon senso avrebbe voluto che, una volta incassato il motivato rifiuto, il segretario del Pdl avesse ritirato la sua idea. Invece, ecco l’arma dell’accordo con la Lega che aveva non uno ma ben due peccati originali: un accordo al ribasso e un’intesa che recuperava un’alleanza politica naufragata con la fine del governo Berlusconi. Il voto della commissione di Palazzo Madama ha quindi certificato quanto già si sapeva.
Allora, perché è stato forzato il destino? Perché hanno cercato la sconfitta? Nulla accade per caso sotto il cielo della politica (o almeno così ci piace credere e pensare, altrimenti, fatta eccezione per la dabbenaggine, non sapremmo più cosa credere e pensare). Qui si è provato in ogni modo a far saltare il tavolo delle riforme e ottenere un casus belli per ritornare al voto in tempi brevi prima che sia troppo tardi sia per la Lega sia per il Pdl. In altre parole, mentre da un lato si sostiene che le riforme istituzionali concrete sono utili a Stato e Paese, dall’altro lato si fa di tutto per non cambiare nulla e conservare le cose così come stanno perché proprio le cose così come stanno sono più utili e controllabili per tutti gli uomini e le donne dell’ex presidente del Consiglio. E tra queste cose che si aspira a non toccare c’è evidentemente “la cosa di tutte le cose” vale a dire la legge elettorale che proprio Berlusconi è ancora in grado di usare a sua immagine e somiglianza. Se questa interpretazione sia giusta o sbagliata lo si saprà presto. Basta attendere il prosieguo della discussione sulle riforme e vedere se il Pdl emenderà se stesso o vorrà ancora praticare il gioco degli emendamenti impossibili per poi prendere cappello, far volare gli stracci e far saltare tutto.
Il Pdl è un partito allo sbando. Non perché non ci capisce più niente. Non perché è ancora diviso tra “quelli di An” e “quelli di Forza Italia”. Non perché non si sa che cosa sarà domani. E’ un partito allo sbando perché ieri era al governo e oggi dovrebbe legiferare ma posto nella condizione ideale per un partito che voglia curare gli interessi nazionali, ecco che mostra il suo lato peggiore: l’inconcludenza, il vaniloquio, e finanche la tentazione populista. A un anno e passa, ormai, dalla crisi del governo Berlusconi, l’ex partito di maggioranza relativa ancora non è stato capace di affrontare il nodo della sua sorte. Avrebbe dovuto fare due cose: sostegno convinto e convincente al governo Monti – che non è la causa di tutti i mali ma la risposta a qualcuno dei tanti mali che gli sono stati affidati – e ridefinizione di se stesso intorno ad alcuni temi importanti per la politica dei partiti e la politica dei cittadini. Invece, sono ancora lì, come al solito, a far pasticci tra sondaggi e consulenze per capire dove soffia il vento nel bel mezzo di una bufera.
(tratto da Liberal)