(Sanniopress) – La prima cosa che mi è venuta in mente dopo aver letto “Heidegger, benvenuto a Benevento” di Nicola Sguera è stata questa: “Eh, stavamo scarsi a Benevento a filosofi, per perdere tempo ci mancava solo Essere e tempo e i Contributi alla filosofia”. Poi mi è anche apparsa la faccia di Billy Nuzzolillo che vorrebbe fare informazione e magari dibattiti cittadini e si ritrova nientemeno ad avere a che fare con la filosofia e, per accoppatura, con una filosofia che decreta la fine della filosofia in nome e per conto del “pensiero poetante” o, peggio, del “pensiero rammemorante”. Caro Billy, che ci vuoi fare, il convento beneventano questo passa e, detto tra di noi, a me non dispiace e un po’ mi diverto. L’idea di Nicola ha in sé qualcosa di “titanico”: trasformare i beneventani in heideggeriani. Cosa impossibile perché i beneventani, come tutti i meridionali, hanno sulle spalle più di duemilacinquecento anni di civiltà e della “gettattezza”, dell’essere-nel-mondo, dell’essere-per-la-morte e dell’essere che “apre” e “chiude” le epoche come e quando vuole lui e dell’oblio dell’essere che svia l’interpretazione di noi stessi e degli enti ne sanno più di Heidegger e non perché abbiano letto tutto Aristotele ma perché, come diceva Leonardo Sciascia, sanno che cos’è lo scirocco che ti entra nelle ossa e ti toglie cammino e respiro.
Le cose che dice il mio e vostro amico Nicola sono tante e io non ho le forze e le conoscenze necessarie per stare dietro a tutta la neo enciclopedia dello spirito hedeggeriano (che non si potrebbe nemmeno chiamare così, ma come chiamarla è già di per sé un problema). Mi voglio soffermare, allora, solo su qualcosa qua e là. Se capisco bene, Nicola tende a porre tra Heidegger e il resto della filosofia una tale distanza che se fosse vera renderebbe impossibile la comprensione di Heidegger. Invece, Heidegger, sia prima sia dopo il suo libro del 1927 non fa altro che pescare idee, parole, opere e omissioni dalla tradizione filosofica. Si può arrivare a sostenere che nel primo tempo Heidegger gioca a reinterpretare e attualizzare Aristotele e nel secondo tempo pensa a partire dalla scuola di pensiero più famosa e diffusa al mondo: il neoplatonismo. Ma, tutto sommato, queste cose ci interessano poco e ci servono a capire che ogni filosofo è sempre figlio del suo tempo. Ciò che interessa di più è la storia del cambiamento del concetto stesso di verità: Heidegger si rende conto che la verità come corrispondenza non sta più in piedi e lo sostituisce con la verità come interpretazione che di per sé ha la sua origine nell’esperienza dell’esser-ci (uomo) che è sempre già linguisticamente orientata. Ma il passaggio dalla verità come corrispondenza alla verità come interpretazione non è un’esclusiva di Heidegger: appartiene alla stessa tradizione filosofica dell’Occidente e a quell’umanesimo che Heidegger disprezza perché non apprezza ossia non conosce. E’ evidente che una volta cambiato il concetto di verità cambi anche il concetto di essere, ma qui Heidegger non riesce mai a “completare” Essere e tempo che aveva posto la questione e gira e rigira intorno all’essere arrivando alla fine a dire finalmente qualcosa di più o meno sensato con il dire che l’essere è Ereignis ossia evento. Ma che cos’è l’evento se non storia? Ciò che c’è in “gioco” in Heidegger – ma non solo in Heidegger – è proprio l’essere inteso come ciò che non va più totalmente dominato e organizzato. Lo storicismo italiano è la messa in scacco della filosofia della storia e ci permette di pensare l’essere secondo abbandono e controllo, proprio come avviene nel calcio e nella vita: per vivere e giocare abbiamo bisogno di controllare e abbandonare la palla e la vita. La storia dell’essere di Heidegger fa rientrare dalla finestra ciò che ha cacciato dalla porta: la filosofia della storia.
C’è poi l’idea che la filosofia sia finita o esaurita e occorra un’altra strada per giungere alla verità. Ma anche questa è un’idea – direbbero a Roma – ricicciata: e l’idea di Heidegger è quella di avvicinare di più poesia e filosofia, anzi, poesia e pensiero (perché rifiuta anche la parola stessa “filosofia”). Però, anche questa idea di vedere una relazione di parentela tra poesia e pensiero è tradizionale e umanistica e parafrasando Nietzsche direi “umanistica, troppo umanistica”. Infatti, nella tradizione critica del pensiero occidentale non solo si unisce poesia e pensiero ma si distingue anche. E non solo perché sono due cose diverse (anche se la seconda non sta senza la prima, come l’uomo non sta senza il fanciullo) ma anche perché affidare la politica e la convivenza civile alla poesia è pericoloso. La poesia diventa facilmente mito e il mito retorica e la retorica propaganda e la propaganda è pubblicità. Vi ricorda qualcosa? Per la nostra esistenza civile non si può fare a meno, da Socrate in avanti, del pensiero critico.
Insomma, se Nicola ci tiene tanto, diamo pure il benvenuto ad Heidegger a Benevento e regaliamo qualche copia – in tedesco, si capisce – a Fausto Pepe e Raffaele Del Vecchio. Però, come dice causticamente Fulvio Tessitore, stiamo attenti a non alimentare le fila degli heideggeriani di provincia che in Italia abbondano o abbondavano fino a qualche anno fa. Perché questo non accada non solo bisogna, come suggeriva Habermas, urbanizzare Heidegger – ma questo è stato fatto da Gadamer e anche da Vattimo – ma anche sapere che se lo si legge o rilegge in relazione alla tradizione della filosofia italiana – umanistica e critica, con evidenti venature tragiche – lo si digerisce meglio.
Noto come tutta la discussione si affrontata da una prospettiva esclusivamente «continentale», escludendo in tal modo gran parte del dibattito e della ricerca filosofica del xx secolo.
GC