(Sanniopress) – L’Italia ha avuto due sinistre: una socialista e una comunista. O, meglio: una riformista e una rivoluzionaria, una laburista e una totalitaria. Le due culture politiche di queste due sinistre o due diversi universi etici possono essere impersonate da Filippo Turati e Antonio Gramsci. Tra Turati e Gramsci non c’è praticamente partita: il fondatore del partito comunista è considerato un fine pensatore politico e un padre nobile della sinistra democratica italiana mentre il socialista riformista è nulla di più di uno “zero”, come si espresse Palmiro Togliatti. Questo giudizio, associato all’altro su Gramsci espresso da Croce il quale in una recensione alle Lettere dal carcere su i “Quaderni della Critica” nel luglio del 1947 ne parlò come di un esempio di altissima tolleranza, di rispetto, di gentilezza, di equanimità e di apertura alle idee e alle ragioni di tutti, ha di fatto manipolato il giudizio sull’importante opera politica e culturale di Turati fino a dimenticarlo o, peggio, a considerarlo un uomo politico minore e secondario. Il preciso libro di Alessandro Orsini – Gramsci e Turati. Le due sinistre, Rubbettino – attraverso il metodo dell’analisi culturale comparata, ribalta il giudizio e ristabilisce la verità storica dando a Turati ciò che è di Turati e a Gramsci ciò che è di Gramsci.
Le opere di Alessandro Orsini prende in esame per chiarire il pensiero politico e filosofico di Gramsci sono quelle scritte quando il fondatore del partito comunista era un uomo libero. E’ importante precisarlo perché il metodo della comparazione sta in piedi esclusivamente se è fondato sulle fonti. Orsini non si preoccupa della letteratura secondaria ma di far parlare direttamente Gramsci. Le domande che si pone (e pone al lettore) sono chiare: Gramsci, che fondò il partito comunista italiano, educò alla tolleranza e al rispetto oppure all’intolleranza e al disprezzo delle idee altrui? Difese il diritto all’errore? Quale fu il suo rapporto con la cultura della violenza?
Il problema di Gramsci non era solo politico ma anche e soprattutto educativo. Il suo obiettivo era quello di formare un uomo nuovo devoto all’ideale rivoluzionario e sottomesso alla disciplina del Partito che come un Dio in terra è la via, la vita e la verità. Chi si ribella o esprime dubbi su questa via da seguire è solo un impaccio: è “inutile e dannoso”. Sei sono i principi pedagogici che Orsini enuclea dall’opera di Gramsci: la chiusura preventiva, l’indottrinamento, l’insulto, la violenza, Lenin, la Verità è il Partito. E’ necessario essere chiusi alle idee degli avversari dalle quali non può venire nulla di buono dal momento che la scelta del Bene e del Male è già avvenuta con la scelta del Partito. Le idee degli avversari sono sbagliate per definizione e, peggio, sono solo malafede. Verso le idee sbagliate e verso chi le espone non è possibile nessuna apertura e nessuna tolleranza: “Politicamente noi non possiamo essere tolleranti, imparziali; non siamo (…) ranocchi d’oggettività, né possiamo praticare nella nostra carne di militanti nel partito della lotta di classe iniezioni di sangue d’agnello”. Essendo chiusi all’altro e alle sue false idee non resta altro da fare che indottrinare le menti con l’unica verità possibile. La verità, proprio perché unica e necessaria, è insostituibile e senza errore. Chi ne dubita, chi è scettico, chi è critico è un pericolo che è meglio eliminare. Se la libertà è il diritto di dissentire, per Gramsci la libertà è solo il dovere di assentire alla verità decisa dal Partito.
Il terzo principio della pedagogia di Gramsci è l’insulto che Orsini chiama “il nemico è un porco” prendendo a prestito le stesse parole di Gramsci. La sua posizione, espressa con estrema chiarezza, è lineare: coloro che non condividono la dottrina marxista devono essere ricoperti di insulti e del massimo disprezzo. Chiunque esso sia: sia che il nemico sia un intellettuale, sia chi si tratti di un politico, di un professore sempre porco è e non merita rispetto. L’insulto conduce alla violenza: “…plaudiamo ai cazzotti, e auguriamoci che essi diventino un programma per liquidare i corrispondenti speciali, i pennaioli asserviti alla greppia”. Il libro di Orsini è pieno zeppo di esempi, citazioni. Delfino Orsi fu definito da Gramsci un “mediocre”, un “disonesto”, un “corrotto”, un “disgraziato”, un “ignobile”, un “vigliacco”, un “pauroso”, un “mezzano del giornalismo”. Il 24 marzo 1916 è la volta dello storico Guglielmo Ferrero che è descritto come uno studioso ridicolo e ignorante, la cui fortuna era da ricondursi unicamente alla mediocrità dei suoi lettori. Il 1° febbraio 1916, Mario Gioda, un anarco-sindacalista, è un uomo che “pulisce i cessi”; mentre il 31 marzo 1916 Gioda è nuovamente denigrato come il “Catone degli scaracchi di tram” e scaracchio significa “sputo pieno di catarro”. Il 19 aprile 1916 prende ancora di mira Delfino Orsi definito “cencio sporco”: “La sua personalità ha per noi, in confronto alla storia, la stessa importanza di uno straccio mestruato”. Insomma, le idee erano date per sbagliate, false e in malafede in partenza – per partito preso – le persone erano insultate e demolite moralmente a botta di insulti e denigrazioni giacché l’educazione politica non serviva la conoscenza ma il Partito.
Il quinto principio pedagogico è il culto di Lenin che è il salvatore dell’umanità: “Lenin si è rivelato, testimoni tutti quelli che lo hanno avvicinato, il più grande statista dell’Europa contemporanea; l’uomo che sprigiona il prestigio, che infiamma e disciplina i popoli; l’uomo che riesce, nel suo vasto cervello, a dominare tutte le energie sociali del mondo che possono essere rivolte a benefizio della rivoluzione”. Tutto ciò che si fa a “benefizio della rivoluzione” è legittimo, giusto, necessario. Anche l’uso della violenza. E’ solo la violenza degli avversari che va condannata, ma la violenza rivoluzionaria è giustificata. Del resto, se si possiede la verità e se si sa come si fonda il paradiso in terra nessun inferno sarà un prezzo troppo alto da pagare e persino il male sarà soltanto una tappa per la realizzazione del bene: il male è solo il bene che prende forma. Questa verità totale e totalitaria è il sesto principio pedagogico: il Partito è la verità e la vita. E il Partito instaura la dittatura per la libertà e tra dittatura e libertà non c’è contrasto e contraddizione perché la libertà è la dittatura stessa perché solo la dottrina salvifica del Partito è in grado di liberare gli uomini dall’errore. Questo abito mentale totalitario, più o meno attenuato, più o meno controllato, ha accompagnato la cultura politica della sinistra italiana per molto tempo. La sua demonizzazione dell’avversario, usata non solo dai comunisti, è giunta fino ai nostri giorni. Questa cultura politica non solo era estranea a Filippo Turati ma era anche consapevolmente contrastata e combattuta dal riformista che aveva come obiettivo, insieme con Giovanni Giolitti, di condurre le masse lavoratrici dentro il perimetro dello Stato liberale perché sapeva che il socialismo sarebbe stato edificato grazie al liberalismo enon contro di esso: “La violenza è il suicidio del proletariato, mentre la legalità è la sua forza e la sua vittoria sicura”. Il pensiero politico di Filippo Turati è anti-totalitario.
La cultura riformista di Filippo Turati è altra cosa, altra pasta: non si ha la verità in tasca, meno che mai nel Partito, l’uomo di per sé è fallibile, il bene e il male non sono due mondi o due classi contrapposte ma sono presenti in ogni uomo. Turati già all’inizio del Novecento aveva elogiato il dissenso e il pluralismo e sapeva, tanto sulla base della scienza quanto sulla base dell’esperienza politica e storica, che la violenza rivoluzionaria avrebbe condotto gli operi e i bisognosi in genere alla sconfitta e non alla emancipazione: inneggiare alla rivoluzione equivaleva a seppellire i propri morti. Il primo e più importante compito del partito socialista, secondo Turati, consisteva in una corretta educazione a tenere “i piedi per terra, in mezzo ai dolori, ai bisogni, alle esperienze di ogni giorno”. Avere intuito politico non significa sapere che “le legnate sul groppone” fanno male, questo lo sanno tutti. L’intuito politico è tale se è capace di evitare la strada che conduce alle legnate. E la strada della storia non è una strada ferrata che è già tutta tracciata e attende di essere necessariamente percorsa e con l’aiuto della violenza e dell’organizzazione del Partito magari percorsa più in fretta. E’ l’inverso: non c’è alcun determinismo e, al contrario, la violenza rivoluzionaria ha solo la capacità di innescare la reazione. Turati aveva tratto grandi insegnamenti dalla crisi italiana di fine secolo e, in fondo, il suo riformismo è una via mediana tra reazione e rivoluzione e sembra riecheggiare la politica di Cavour: “Né reazione, né rivoluzione”. Non è un caso che l’opera politica di Turati vada letta e compresa con l’opera politica di Giolitti. Giustamente Alessandro Orsini fa notare che Turati e Giolitti, alla vigilia della prima guerra mondiale, smettono quasi contemporaneamente di essere i protagonisti della vita politica italiana. L’astro nascente è Mussolini: “Ha inizio la folle corsa che porterà al collasso dello Stato liberale”.
La cultura politica di Filippo Turati si caratterizza, alla fine, come educazione alla non violenza e alla libertà. Leggiamo queste sue belle parole a conclusione di questo articolo: “Vi sono due discipline. L’una consiste nelle ragionevoli rinunzie reciproche, nel sentire certi imperativi, nel frenare e moderare, qualche volta, per interesse superiore, l’espressione delle proprie convinzioni, e questa è la buona. Ma ve n’è un’altra, che consiste nell’obbedire come servi, che consiste nel non avere un’opinione salda e tenace, nel concedere sempre alle masse e a chi le maneggia, nel protrarsi a tutto quello che domandino, nel seguirle e lusingarle in tutti gli errori. Orbene, signori, lo dico specialmente agli operai, diffidate di questa razza di disciplinati. Questi disciplinatissimi, i quali con tanta facilità prima professano un’opinione e poi la rinnegano ad un cenno, non sono dei disciplinati, sono dei vili, dei servili, e non servono a nulla, neanche per la rivoluzione”.
tratto da Liberal