(Sanniopress) – Al punto arriviamo subito, così evitiamo chiacchiere inutili. Si vuole parlare di Carmelo Imbriani. Non il calciatore che dopo tanta gavetta si afferma tra Napoli, Cosenza e Benevento o l’ allenatore neofita del Benevento Calcio. Per questo c’è chi può scrivere con più perizia. E’ la persona che c’interessa, la sua esperienza di vita, con i successi e le inevitabili delusioni. Per cercare di capirlo meglio sono stato a casa sua per una discussione amichevole. Prima di parlarne, però, due premesse a titolo personale utili per inquadrare l’uomo Imbriani.
Ci siamo incontrati la prima volta, credo, nel 1995. Non avevo neppure otto anni, amavo il calcio. Lui era il talentino diciannovenne che con i colori del Napoli prometteva sfracelli in serie A, aveva mandato al tappeto l’Inter e iniziava a girare nell’orbita della Nazionale under-21. Poichè dopo le partite tornava sempre al paese e visto che siamo compaesani, andai a trovarlo con un cugino, per chiedergli un autografo. Ero frugoletto ma ricordo la disponibiltà e l’affetto rivolto al piccolo tifoso che ero, dopo la notte tirata a tardi.
L’ho rivisto personalmente solo a distanza di anni. Carmelo era il calciatore maturo che, dopo tanto girovagare, aveva fatto ritorno a casa e guidava le truppe del Benevento Calcio. Io, l’appassionato di pallone senza pretese, giochicchiavo con la Berretti . Il giovedì era d’amichevole, gli affermati calciatori della prima squadra contro gli sfessati delle giovanili. I vip come gli intoccabili, non sia mai Dio sfiorarli o toglier loro la palla. E pure in quell’occasione Carmelo era l’ eccezione, sorridente, gioviale, corretto, ben disposto nei confronti di quei quattro rovinati con pretese di calciatore.
Dicevo all’inizio del dialogo a casa sua. Carmelo mi ha accolto accompagnato dalla famiglia, lui, la bella moglie, la figlia di diciannove mesi che scorrazzava avanti e indietro. Quell’immagine lasciava trasparire un’idea di famiglia unita consacrata ai valori tradizionali, quelli genuini. Forse è proprio questa la cifra della sua esistenza. Conversando della sua vita davanti ad una guantiera di dolci, infatti, è il tema familiare che torna sempre, la famiglia come personalissimo rifugio e vero centro di valori. Era ragazzino, a tredici anni, e ha lasciato il paese d’origine per giocare nelle giovanili del Napoli, dopo la proposta del Milan. Piangeva nella stanzino del collegio ripensando ai genitori rimasti a casa e che, appena potevano, andavano a trovarlo. A vent’anni, dopo le venticinque partite di serie A, i successi, le folle acclamanti , le donne e qualche sbandamento, la polvere della serie C tra Pistoia e Casarano. La prima grande delusione, il calciatore nel giro delle nazionali giovanili con Totti e Nesta finito in periferia a farsi le ossa. Non più masse festanti e corte dei miracoli , quelle degli inizi, ma amici dileguati senza tanti complimenti e la paura della fine del sogno. Pure in questo caso, solo la famiglia a resistere come impalcatura di sostegno, forse i due, tre amici di sempre. Gli ho chiesto, a questo punto, cosa ci sia , per lui, oltre il calcio, per avere una conferma sul legame familiare. La sua risposta può sembrare banale, e forse è veramente banale, ma è su una linea di continuità con le affermazioni precedenti e, per questo, sincera.”Sai, Domenico – mi ha spiegato – io oggi vivo anzitutto per mia moglie e mia figlia. Il mio obiettivo e’ che mia figlia possa crescere felice. Tutto il resto, a confronto, conta poco”.
Carmelo ha sempre conservato un forte vincolo con il paese d’origine, Ceppaloni, dove tuttora vive. La gente del posto gli mostra affetto di continuo e lui ricambia con altrettanta disponibilità. Questa relazione quasi intima è almeno in parte eccezionale: il calciatore e allenatore affermato che si cala senza snobismi nella dimensione locale. Mi ha raccontato un episodio che è significativo in proposito. “Quando avevo poco più di vent’anni sono stato in Inghilterra. Una squadra inglese mi aveva proposto un contratto triennale ricco che mi avrebbe dato sicurezza economica e l’occasione per un ulteriore rilancio della mia carriera. Mi sono trattenuto diversi giorni ma, alla fine, ho preferito tornare in Italia, a contatto con una realtà che conoscevo e amavo, magari più vicino ai miei affetti, anzitutto familiari”.
Per concludere abbiamo parlato dei suoi maestri e delle delusioni come palestra di vita. Carmelo mi ha risposto senza esitazioni: “Nella mia esperienza di calciatore, dovessi indicare due punti di riferimento, direi senza dubbio Sergio Buso, che mi ha allenato a Catanzaro, e Gianni Simonelli, l’allenatore-filosofo. La morte di Buso, in questo senso, mi ha profondamente rattristato”.
Le delusioni pure sono state presenti, nel calcio e, di rimando, nella vita: “Quando giocavo e segnavo con il Napoli a diciannove anni avevo attorno decine e decine di amici, o presunti tali. Alle prime difficoltà mi sono trovato quasi solo, con la mia famiglia e pochi veri amici. Da un punto di vista psicologico è stato difficile, come dopo le traversie a Pistoia e Casarano, ma ne ho tratto insegnamento per il mio presente di allenatore e di padre”. Anche l’esperienza a Benevento non è stata tutti luccichii: ”Sono stato il capitano e oggi l’allenatore della squadra della mia città. Tutto questo mi riempie d’orgoglio. Come l’attaccamento dei tifosi. Ma, anche in questo caso, non tutto è stato semplice. Ad esempio, dopo il ritorno da Catanzaro e alcune prestazioni deludenti, me ne sono state dette di tutti i colori. “Raccomandato” è stata la più delicata. Pure l’ultimo anno a Benevento come calciatore non è stato facile. Soda mi ha messo ai margini non dandomi la possibilità di disputare neppure un minuto nella finale play-off con il Crotone. Dovessi trovare una causa al mio ritiro calcistico, direi che Soda ha dato un suo contributo importante. Al tempo stesso, però, lo devo ringraziare. Mi fatto capire che avrei potuto diventare allenatore. Se ce l’aveva fatta lui avrei potuto farcela anch’io”.
Ci salutiamo benevolmente, Carmelo con la figlioletta in braccio e la moglie di fianco.