(Sanniopress) – Qualche giorno fa una giovane laureata in filosofia, Antonietta Capone, mi ha contattato per pormi alcune domande circa la “Libera scuola di filosofia del Sannio”. Ecco le domande di Capone e le mie risposte. (Amerigo Ciervo)
Per cominciare ad addentrarci nella questione, ritengo che si possa cogliere il senso di un’ iniziativa, come quella da lei promossa, sviscerando la semantica delle parole che la definiscono: “Libera Scuola di Filosofia del Sannio”, dunque. Nella presentazione del progetto su Sanniopress, lei ricostruisce l’ etimologia del termine “scuola”, il cui significato si evolve da “tempo libero” a “luogo per il tempo libero” e da qui a tempo/luogo del dia-logo e della conoscenza. Poiché l’etimo è il programma, si può dedurre che la Scuola non avrà indirizzo, né uditori indirizzati a cui seminari e dibattiti saranno rivolti?
Comincio col dire che con me, a dare vita a quest’esperienza possibile, ci sono due colleghi valentissimi, oltre che cari amici, Giancristiano Desiderio e Nicola Sguera. Credo che l’idea sia nata perché, dibattendo su alcuni aspetti molto concreti sul blog di Sanniopress (per esempio, la scuola), ci siamo accorti che uno spazio reale di discussione, nel senso classico del termine, potesse avere una sua ragion d’essere. Abbiamo storie diversissime e proveniamo da esperienze di vita diversificate. Ci accomuna, però, quell’annotazione socratica circa l’indegnità di una vita vissuta senza ricercare. Filosofare significhi essenzialmente porre domande. Sembra necessario uscire dalla sicumera dei massimi sistemi. Mettere da parte quel costume, molto accademico, di distribuire risposte come se si trattasse di oracoli. Andare oltre, poi, quella connotazione che, dalle nostre parti, caratterizza l’individuazione di chi fa o di chi si occupa di filosofia: Quello fa ‘o filosofo… E, infine, sembra ancora più necessario sprofessionalizzare – se mi è lecito utilizzare questo verbo orribile – la funzione puramente scolastica dei cosiddetti filosofi per ritornare all’uso originario, ossia riportando la filosofia nel cuore della polis. E’ l’esatto contrario di quanto si pensa, comunemente, a proposito del “tempo libero”. Il “tempo libero” va dedicato alla riflessione e all’esercizio dell’attraversamento (dià-logo) delle parole. Questo è il nostro primo obiettivo comune. Ne abbiamo parlato, verso la fine dell’anno scorso, al tavolo di un bar. O, meglio, di un caffè. Che è uno dei luoghi filosofici per eccellenza della modernità e della contemporaneità. Mi ricordo che, quando ero piccolo, mio padre, di pomeriggio, nel tempo libero, uscendo, diceva a mia madre: vado al caffè. Si andava per incontrare gli amici, per discutere. Anche di politica. Non solo di sport. Trovo questa pratica molto vicina al mio modo di intendere questa esperienza. Confermo. La scuola non avrà indirizzo. “Non c’è una posizione ufficiale della Libera Scuola se non quella della diversità delle posizioni e dei pensieri, altrimenti che libertà è?”, sostiene Giancristiano Desiderio. “Rischieremmo di mediare all’infinito tra posizioni diverse… Io credo che dovremo custodire l’autonomia delle posizioni”, pensa Nicola Sguera. Io, naturalmente, concordo. Quindi si viene, si ascolta, s’interviene, ci si oppone, si dibatte. Si attraversano le parole. Cioè si attraversano le idee. Approfitto per ringraziare l’amico Giulio De Cunto, che ha messo a disposizione della libera scuola una sala del Convitto “Giannone”.
Questo mi induce a chiederle se il gesto stesso di istituire un luogo per la filosofia non sia privo di presupposti: ovvero non è presupposta già una concezione della filosofia, una scelta di ciò che essa debba essere, del suo ruolo nel mondo, della sua utilità per la vita. In definitiva non ne è presupposta l’ attualità?
Ciervo: L’unico presupposto possibile è dentro la sua stessa parola: Se le parole hanno un senso e non vengono utilizzate, come si dice nella lingua napolitana, a “schiòvere”, la parola “filosofia”, come ritiene Heidegger, “é scritta sull’atto di nascita della nostra storia, per cui potremo porre la domanda ‘che cos’é la filosofia?’ solo se ci impegniamo in un dialogo con il pensiero del mondo greco”. Capisco che, con i tempi che stiamo vivendo, la cosa potrebbe apparire bizzarra. Ma lavorare per giungere alla verità “in quanto sapere incontrovertibile” è una prassi che i greci hanno avviato. Questo mi sembra essere il suo ruolo. Non semplice né tantomeno riposante. Piacevole quanto può essere un tafano, giusto per mantenersi in un paragone socratico-platonico. Io non so la filosofia sia utile per la vita. Certo è che la vita ci pone domande, continua ad interrogarci e non penso che bastino i plastici di Bruno Vespa. Sull’attualità della filosofia e sul fatto che alcune questioni (per me, per esempio, la questione della giustizia. Il fatto che, come ci dicono, in Italia il dieci per cento della popolazione possegga il cinquanta per cento della ricchezza è assolutamente intollerabile) siano all’ordine del giorno credo non ci siano dubbi. Del resto l’apertura di una scuola libera è proprio, per me, la prova dell’attualità della filosofia. Ora, però, aspettiamo la controprova.
Il 30 dicembre 2011, il Venerdì di Repubblica pubblicava un articolo, a firma di Paola Zanuttini, in cui la marginalità culturale del Sannio era descritta come effetto dell’ apatia intellettuale dei suoi abitanti. Innanzitutto è d’ accordo con questa analisi? Se queste sono le premesse, quanto è ambizioso il suo progetto e con quali prospettive di incontrare i bisogni spirituali della popolazione sannita nasce?
L’articolo mi è sembrato, ad essere sincero, un po’ raffazzonato. La cosa mi ha meravigliato. Leggo Repubblica dalla sua fondazione e Paola Zanuttini mi è parsa sempre tra le giornaliste migliori. Certamente non superficiale. Non mi piace questo voler “sbalordire il borghese” a tutti i costi. Ed è difficile raccontare la complessità di una realtà come Benevento con un articolo. Apatia intellettuale e marginalità culturale sono due elementi che hanno caratterizzato e caratterizzano il nostro paese. La crisi non è solo economica. E’, per me, culturale. E l’aggettivo va inteso in senso ampio. La ricerca, la letteratura, il cinema, la musica… Le espressioni artistiche non raccontano più il paese. Si pensi alla maniera un po’ schizofrenica con cui il paese ha vissuto l’anniversario dei centocinquanta anni della sua storia. Per i cento anni, uscì un film come il Gattopardo. Io amo il calcio, come Nicola e come Giancristiano che alla dimensione filosofica del calcio ha dedicato libri importanti. Ma non se ne può davvero più di questo affrontare i grandi problemi della vita, della politica, dell’etica schierandosi come tifosi o ultrà. Mi viene in mente il caso Englaro. Un macabro balletto attorno al capezzale di una donna sventurata con schieramenti contrapposti, bandiere, striscioni. Il chiasso eccessivo impedì la discussione, l’approfondimento.
E’ chiaro che le zone interne, le realtà provinciali scontano maggiormente questo torpore. Se ci sono, i bisogni spirituali (e io credo che i bisogni spirituali sono lì: gli uomini continuano a scontrarsi, anche se non vogliono ammetterlo con quelle situazioni-limite di cui parla Jaspers: la morte, la colpa, il caso…) dovranno pure uscire allo scoperto. L’idea è quella di offrire una dimora dove sarà possibilità pensarli questi bisogni spirituali, al di fuori della burocrazia e delle prese di posizione un po’ obbligate.
Torniamo per un attimo alle denominazioni. Se già nella stessa radice di scuola è evocata la libertà (dalla costrizione, dal bisogno, dal dogma), non c’è una certa ridondanza nell’ associare al sostantivo l’aggettivo “libera”? o forse c’è un intento velatamente critico nei confronti della scuola-istituzione di cui lei è parte? La domanda ovviamente è: ci sono possibilità di impiegare “l’ora di filosofia” a scuola in una direzione inversa a quell’ abbassamento della riflessione ad un falso sapere mnemonico e libresco, così come molti dei miei coetanei, me compresa,la ricordano?
Insegno da ventuno anni al liceo Giannone. I ragazzi, di solito, pur studiando il greco, quando ricordo loro che uno dei significati che i greci assegnavano alla parola “scolé’” é “tempo libero”, mi guardano stravolti, con l’espressione di chi pensa di doversi ricredere circa il loro docente che o fa uso di stupefacenti o è bevitore robusto fin dalla mattina. Non penso sia ridondanza il nome, perché il significato originario della parola s’è perso da lungo tempo ed è con il significato di oggi che occorre fare i conti. Mia nonna mi raccontava spesso che, ai suoi tempi, un suo compagno dei primissimi anni, lamentandosi per le ore trascorse in classe, magari in ginocchio, sui ceci o sui chicchi di mais, si rivolgeva ai polli che s’aggiravano per la corte, esclamando: Beate voi, gallinelle mie, che non andate a scuola. I ceci non si usano più. E nemmeno il mais. Non escludo che ci possano essere altre forme di tortura inflitte ai giovani che frequentano le nostre aule. Il problema della filosofia a scuola è il problema stesso della scuola. La burocratizzazione della conoscenza e delle sue pratiche sta ammazzando la scuola. Magari all’Accademia platonica o al Liceo aristotelico non si presentava la programmazione. Il sapere mnemonico e libresco, dannoso per le altre discipline, diventa devastante per la filosofia. Il problema è vecchio come il cucco. In Italia l’impostazione neoidealistica e storicistica ha sempre privilegiato lo studio della filosofia come “storia della filosofia”. Altri ha accennato alla possibilità di procedere per problematiche. Magari una strada praticabile potrebbe essere quella di un incontro diretto con il “mondo” di un filosofo, attraverso la lettura di un’opera completa. La scelta di dare vita a una libera scuola vorrebbe mostrare proprio che, al di là di ciò che si fa nelle scuole, un altro approccio è possibile, a condizione di recuperare quella che i greci chiamavano la “parresìa”, che è il dovere morale di dire la verità. La libertà della parola è la libertà del pensiero.
La settimana scorsa, ospite della Società Dante Alighieri, il critico letterario Walter Mauro ha presentato a Benevento il suo ultimo lavoro, La letteratura è un cortile. Ho trovato estremamente fertile la metafora del cortile che evoca quella tensione civile delle idee e quella fecondità del dibattito, non estraneo ad una certa litigiosità, ma comunque impostato sulla serietà della riflessione, che crea ricchezza umana―i percorsi esistenziali ― e mondana ―le opere. Lei ritiene che la filosofia possa appropriarsi di questa metafora e, con essa, di quella pratica, profondamente libertaria, dell’ intersoggettività a cui vuole indirizzare? Non le sembra che l’ immagine del cortile qualifichi l’ apertura del pensiero in un senso più umano che non quella più famosa della radura heideggeriana, dove la ragione filosofica sembra assistere ed interpretare una storia che in fondo non le appartiene?
L’immagine del cortile si sposa straordinariamente con la mia idea di filosofia. Ho vissuto per moltissimi anni in paese, e ho un vaghissimo ricordo della fine degli anni cinquanta e, più nitido, dei sessanta. So bene, dunque, cosa il cortile rappresentasse dal punto di vista urbanistico e, più in generale, culturale della nostra civiltà.
In un cortile si affacciavano più gruppi familiari che condividevano spazi comuni. Certo le liti erano frequenti ma più frequenti erano i momenti di condivisione. La condivisione dei discorsi, per esempio. Ma anche la condivisione del lievito, che era chiamato il “crìscito”, e che veniva benedetto col segno della croce dalle donne perché doveva, magicamente o miracolosamente, rendere morbido e gonfio l’impasto del pane o dei dolci pasquali che raccontavano la rinascita, la ripresa del ciclo della vita.
Il “crìscito” è simbolo ed elemento di coesione proprio perché era un bene comune che favoriva scambi che determinavano la vita comunitaria e il miglioramento di vita. Il ”fermento” è il segno del processo di trasformazione della natura che costituisce il fondamento della cultura, intesa anche come “formazione”, “educazione”. Nelle lingue neolatine dalla parola lievito discende anche la parola “allievo”. L’educatore fa crescere il suo discepolo come il “crìscito” fa crescere il pane. Sicché nel cortile si creava, appunto “ricchezza umana” e al suo interno si intrecciavano – certo – i percorsi esistenziali. Le due immagini non sono necessariamente contrastanti. Anzi potrebbero essere – nel quadro di scambio libero di idee – convergenti, recuperando e conservando quel significato, che io trovo particolarmente stimolante, di “Lichtung”, la parola tedesca che Heidegger usa per illustrare lo spazio dove, non essendoci piante, la luce può illuminare l’Essere. Insomma la nostra idea è quella di creare uno spazio dove l’unica riconoscibilità possibile è l’amore per una ricerca libera e appassionata. Senza pregiudizi né schieramenti aprioristici. Senza imprecare, ma comprendendo. Così come suggerisce quel filosofo olandese che solitamente respingeva offerte di aiuto economico, vivendo del suo lavoro, finendo per rifiutare persino la cattedra che gli era stata offerta a Heidelberg per non rinunciare alla sua libertà. Uno sfigato? Può essere. Ma filosofare, alla fine, solo questo significa. Non altro.
( tratto da gruppo Facebook Libera scuola di filosofia del Sannio)