di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Francesco Schettino non è più Francesco Schettino. E’ un modello. Negativo, ma pur sempre un modello. E’ un paradigma o uno stereotipo o, alla maniera di Max Weber, un idealtipo. Ecco, la Germania è ciò che ci vuole per avviare il discorso. Per i tedeschi, gli italiani sono pasticcioni, sfaticati, inaffidabili. Capitan Schettino con la fuga dalla Costa Concordia mentre la nave affondava con i passeggeri a bordo è l’idealtipo dell’essere-italiano. Der Spiegel, il settimanale più venduto in Europa, ha pubblicato un articolo il cui “attacco” suona così: “Siate onesti: vi ha sorpreso che il capitano del disastro della Costa Concordia è italiano? Riuscite ad immaginare una tale manovra a cui fa il paio il comandante scappato, eseguita da un capitano tedesco, o forse dovremmo dire, inglese?”. Chiaro?
Secondo il modello negativo o pregiudizio tedesco nei confronti degli italiani – pregiudizio che poi nell’articolo verrà messo in discussione – solo un italiano poteva affondare una nave, combinare un disastro e scappare. Anzi, proprio la fuga, perché in un errore vi può incappare chiunque e chissà quanti ne hanno commessi ma, fortunatamente per sé e per gli altri, senza conseguenze, proprio la fuga di Capitan Schettino rappresenta la quintessenza dell’italiano, come se fosse il riassunto dell’inaffidabilità di tutti gli italiani. Insomma, lo “schettinismo” non sarebbe la colpa e la irresponsabilità di un uomo e di un marinaio che viene meno ai suoi doveri di capitano, bensì la colpa di un popolo intero. Un’assurdità. Voi capite, infatti, che se ragioniamo così ci incamminiamo sulla strada della barbarie. A Der Spiegel ha fatto seguito il titolo de Il Giornale: “A noi Schettino, a voi Aushwitz”.
Cambiamo scena. Andiamo negli Stati Uniti d’America. Anche qui c’è chi cita Capitan Schettino non in quanto Francesco Schettino ma come esempio negativo, tipo storico, metafora, concetto. E’ Reince Priebus, capo del partito repubblicano, che alla vigilia del voto in Florida, che dovrebbe rilanciare la leadership di Mitt Romney, ha detto alla Cbs: “La storia dimostra che avere primarie aspre e un po’ di dramma alla fine può essere una buona cosa per il nostro partito. E alla fine, tra qualche mese, dimenticheremo tutto. E finalmente parleremo di Obama al passato, come il nostro Capitan Schettino, uno che di questi tempi sta abbandonando la nave degli Stati Uniti. Come vedono tutti – ribadisce e attacca il leader del Grand Old Party – ormai da settimane è più interessato a fare la campagna elettorale per essere rieletto invece di fare il suo lavoro di presidente degli Stati Uniti. Per questo lo chiamo Capitan Schettino, uno che non sta facendo il suo dovere, ma gira il Paese a raccogliere voti”. Lo schettinismo è entrato alla grande nella campagna elettorale per la Casa Bianca. Il comportamento irresponsabile del comandante della Costa Concordia è indicato come una forma di alto tradimento. In questo caso, però, il giudizio negativo di Reince Priebus è giusto – nei confronti dell’italiano, sul presidente americano non sappiamo – perché parla di “uno che non sta facendo il suo dovere” e indica come esempio il caso clamoroso di Capitan Schettino. Si esclude il riferimento ad un ipotetico malcostume italiano o ad una non meglio individuabile “essenza italiana” espressa a mo’ di riassunto nello schettinismo.
Cambiamo ancora una volta scena. Torniamo a casa nostra. La Juventus è interessata ad un giocatore del Cagliari, precisamente Nainggolan. La corte diventa a tutto campo e quando si moltiplicano le voci di un imminente trasferimento di Nainggolan alla Juventus è un altro giocatore della squadra sarda a pronunciare la storica frase: “Se Nainggolan accettasse la corte della Juve e lasciasse il Cagliari, sarebbe come il comandante della Costa Concordia, Schettino”. La corte della Juventus è una tentazione forte per chiunque, l’occasione della vita per un calciatore. Tuttavia, l’accusa di Cossu è meglio di uno stop rude del vecchio Furino. Tanto che tutto naufraga e il presidente rossoblu Massimo Cellino: “Nainggolan alla Juve? Rispondo con una frase di Cossu che gli ha detto di non fare come Schettino. Non mi sembra voglia andare via. E poi siamo contati. Tra un po’ dobbiamo far giocare il magazziniere”. In questo caso di calcio-mercato lo schettinismo, francamente, appare un po’ fuori luogo. Se ogni volta che un giocatore lascia una maglia per vestirne un’altra magari più blasonata scatta l’accusa di “fare come Capitan Schettino” allora non vi sarebbero più passaggi da una squadra all’altra. L’accusa di schettinismo è impropria anche nel caso di un passaggio da una squadra in difficoltà a una che gioca per vincere lo scudetto: cambiare squadra non significa “abbandonare” ma scegliere e, in aggiunta, è una scelta che è fatta insieme con altri che sottoscrivono un contratto. Può essere una scelta sofferta o opportunistica, ma non sarà mai un abbandono.
Sono questi tre esempi di schettinismo. Sono tre esempi noti ma molti altri se ne potrebbero aggiungere. La vicenda drammatica del naufragio della Costa Concordia all’Isola del Giglio e la figura sciagurata del comandante Francesco Schettino hanno fatto inevitabilmente il giro del mondo e in pochissimo tempo sono diventati dei simboli, fatti emblematici, modi di dire. Il naufragio di per sé è una delle metafore più usate e di cui più si abusa. Il filosofo Jaspers, tedesco (ed ebreo), ne sapeva qualcosa. Il comportamento di Capitan Schettino ha qualcosa di così goffo e vigliacco che si è imposto sulla sciagura stessa: se il comandante non fosse scappato e avesse dato l’anima e il corpo per salvare passeggeri ed equipaggio, la sciagura sarebbe stata meno sciagura, sarebbe stata più sopportabile, e lui, Capitan Schettino avrebbe perso tutto tranne l’onore. Proprio qui, però, si annida il tallone d’Achille dello schettinismo in versione “idealtipo nazionale”, cioè come se Schettino non fosse solo se stesso ma tutti gli italiani: gli italiani danno il meglio di sé proprio nei guai. Quando tutto è messo male, quando tutto è perduto, quando l’acqua arriva fino al collo, quando si è sommersi dal fango, quando si è sotto le macerie, ecco è proprio in queste situazioni che gli italiani, brava gente o meno che siano, danno il meglio. A volte, proprio come nel caso del naufragio davanti al Giglio, sono proprio loro la causa dei loro mali, ma nel momento della necessità gli italiani sanno riscattarsi. Lo schettinismo in versione weberiana – che il grande sociologo mi perdoni – è dunque non solo ingiusto e sbagliato ma anche falso: non è vero che gli italiani scappano quando la nave affonda, anzi, è vero il contrario perché noi italiani tiriamo fuori il nostro orgoglio e il nostro ingegno proprio quando tutto sembra ormai perduto. Senza retorica: c’è più verità nazionale nella morte di Fabrizio Quattrocchi che nella fuga di Francesco Schettino. Il “mercenario” – così fu scritto e detto – morì da eroe offrendo il petto ai suoi aguzzini, il comandante taglia la corda mettendosi in salvo lasciando i passeggeri a vedersela da soli. Sono due estremi. Dov’è la “verità italiana”? Probabilmente, come per tutte le “verità nazionali” o “popolari” è aristotelicamente nel mezzo.
Tuttavia, nel naufragio della gigantesca nave da crociera e nel dramma di Capitan Schettino c’è qualcosa che va oltre i singoli individui. Lo ha sottolineato molto bene lo scrittore e uomo di mare Artuto Perez-Reverte in un articolo tradotto da Elena Rolla per il Corriere della Sera. “Mi sono fatto un’opinione personale sulla faccenda – dice lo scrittore e marinaio -. Con l’avvento di Internet e della telefonia mobile che rendono estremamente facili le comunicazioni, la responsabilità di un marinaio si disperde tra aspetti estranei al mare e ai suoi problemi immediati”. Non viviamo, come diciamo spesso, forse senza soffermarci sul senso delle parole che diciamo, in “tempo reale” ogni avvenimento? Il mondo delle telecomunicazioni riduce il mondo reale a sua immagine e ci illude di dominarlo mentre ci inibiamo anche la nostra piccola ma pur sempre esistente possibilità di azione. Quanto accadde a bordo della Costa Concordia dopo l’impatto sugli scogli è emblematico. Se lo ricostruiamo ci rendiamo conto che lo schettinismo diventa qualcosa non più di idealtipico ma di più universale, se fosse possibile un’espressione del genere. La ricostruzione di Arturo Perez-Reverte è precisa e la prendo in prestito.
L’ufficiale che andò a controllare quanta acqua era entrata nella sala macchine cercò ripetutamente di informare il ponte di comando, senza ottenere risposta perché il capitano era impegnato al telefono. Nelle cose che ci accadono c’è quasi sempre di mezzo un telefonino. Di fatto, buona parte dei quarantacinque minuti trascorsi tra il momento dell’impatto (21.58), le menzogne alle autorità marittime di Livorno (22.10) e infine la confessione della presenza di una falla (22.43), come del resto il successivo quarto d’ora fino al segnale – sette fischi corti e uno lungo – di abbandonare la nave (22.58), quando ormai i membri dell’equipaggio e i passeggeri lo stavano già facendo autonomamente da dieci minuti, Schettino li passò al telefono, non con le autorità né con i mezzi di soccorso, ma con il responsabile delle operazioni marittime della Costa Crociere. Dunque, invece di fare il capitano della nave, Schettino chiedeva istruzioni alla compagnia. “La mia conclusione – dice lo scrittore che conosce il mare e la terra – è che quella sera il capitano Schettino non esercitava il comando della sua nave. Quando telefonò al suo armatore smise di essere un capitano per diventare un pover’uomo che chiedeva istruzioni. Il fatto è che le moderne comunicazioni rendono ormai impossibile l’iniziativa di chi si trova sul campo, perfino nei casi d’emergenza. Nemmeno un militare che ha sotto tiro un talebano che gli sta sparando o un pirata somalo con degli ostaggi, si azzarda a premere il grilletto finché non riceve il beneplacito di un ministro della Difesa che si trova in ufficio a migliaia di chilometri di distanza”.
Lo schettinismo, allora, qui cambia significato: non è più o non è solo una codardia ma la fine della storia dell’uomo che assume su di sé la gravità del momento e agisce. Questa storia in cui gli uomini, anche pagando di persona, sono – come comunemente ancora diciamo – all’altezza della situazione non c’è più ed è stata rimpiazzata da un mondo in cui gli individui sono immersi, alla maniera di Kafka, nelle leggi, nei regolamenti, nelle burocrazie e facendo affidamento sulla tecnologia e le relazioni in “tempo reale” un po’ scaricano il peso della responsabilità della propria azione sulle norme e un po’ hanno paura di dare un calcio alle istruzioni e alle “regole d’ingaggio” per assumere in prima persona l’iniziativa. Il comportamento di Capitan Schettino – e il comportamento di per sé è schematico e ripetitivo, mentre l’azione è sempre individuale e responsabile – rientra proprio in questa fenomenologia in cui la catena del comando, reale o irreale, legale o illegale non conta, schiaccia ed estromette la libera iniziativa di un capitano senza comando, senza nave, senza equipaggio, senza passeggeri. Lo schettinismo, dunque, è qualcosa di molto vicino all’affondamento del Titanic. Non solo per l’ovvio motivo della fine a picco di due transatlantici. Ma perché esprime l’inanità dell’uomo che è diventato impotente per il troppo potere. La fine di un’epoca ieri, la fine di un’epoca oggi.
(tratto da Liberal dell’1 febbraio 2012)