(Sanniopress) – “Comprendere è impossibile; conoscere è necessario. Questo è il compito amaro, angoscioso, che voi oggi affrontate. Vi è stato proposto, e voi avete accettato di compiere, questo pellegrinaggio, nella convinzione che occorre conoscere il passato, affinché esso non possa ripetersi”.
Sono le parole che il presidente Napolitano, citando Primo Levi, rivolse, qualche anno fa, agli studenti che si accingevano a partire per Auschvitz. E anch’io, stamane, mi rivolgerò essenzialmente a voi studenti presenti in questa sala. (*)
Dunque il dovere della memoria. Secondo il capo dello Stato, “trasmettere da una generazione all’altra la memoria del nostro passato non è un rito che si tramanda. E’ un dovere che deve essere adempiuto”.
Da più parti si sente dire che il pericolo che si anniderebbe in manifestazioni come queste sarebbe proprio il pericolo della ritualità. Personalmente non temo la parola “rito” che è un momento simbolicamente forte attraverso cui una comunità ritrova se stessa, i suoi valori fondativi, la ragione della sua stessa esistenza.
Lo spettatore greco si recava a teatro per apprendere precetti religiosi, per riflettere sul significato misterioso dell’esistenza, per rafforzare il senso della comunità civica. L’evento teatrale aveva dunque la valenza di un’attività morale e religiosa, assimilabile ad un vero e proprio rito. Attività morale e religiosa in senso civile. Il rito diventa vuota ritualità, viceversa, quando le giornate del ricordo scorrono via senza la curiosità di voler sapere, senza la scelta di voler comprendere.
Noi stamattina vogliamo trasmettere informazioni e abbiamo bisogno di comprendere cosa sia successo, nella prima metà del secolo XX, nel cuore stesso della civiltà europea. In quella civiltà che aveva prodotto Dante e Goethe, Bach e Kant, Voltaire e Mozart e al cui interno, come in una sorta di – apparentemente incomprensibile – corto circuito, si sviluppa un’idea che io non definirò “folle”. Parlare di follia ci preserva dalle responsabilità. Ammetterete che diventerà molto facile scaricare le colpe su uno solo.
Ora ciò che non potremo dimenticare di quel secolo che è stato definito “breve” è il suo carattere dominante: il manifestarsi di un male nuovo, di un regime politico inedito, il totalitarismo. Si chiede Todorov che “ad ascoltare le litanie dei massacri e delle sofferenze che li accompagnano le cifre smisurate delle vittime dietro cui si nascondono volti di persone che sarebbe necessario ricordare una ad una, ci si potrebbe domandare: il XVIII secolo è stato designato dagli storici come il “secolo dei Lumi”, si finirà per chiamare il XX il secolo delle tenebre”. Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι μᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς “E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”.
Accantoniamo l’analisi storica – che è complessa e non certamente esauribile nell’arco di una mattinata. Ci basti sapere che esiste ancora una copia del protocollo della riunione segreta in cui, il 20 gennaio 1942, alti ufficiali delle SS e dignitari d’alto rango del Partito nazionalsocialista e dell’amministrazione del Terzo Reich discussero e organizzarono con precisione e metodicità industriale il genocidio del popolo ebraico. Le quindici pagine dattiloscritte ingiallite dal tempo, sono state pubblicate da Welt online, l’edizione digitale del quotidiano liberalconservatore. Oggi tutti, soprattutto i giovani, possono ritrovare la prova schiacciante della Shoah. E’ l’ennesima smentita ai negazionisti, ai nostalgici e agli storici revisionisti che affermano senza vergogna che l’Olocausto sarebbe un’invenzione dei vincitori della seconda guerra mondiale (Usa, Regno Unito, Urss, la Polonia del governo in esilio a Londra, la Francia libera di De Gaulle e i molti Paesi e movimenti di resistenza loro alleati.
L’idea di redigere il protocollo della riunione e di stamparne trenta copie fu di Adolf Eichmann, l’alto ufficiale delle SS che poi progettò l’esecuzione dello sterminio nei minimi dettagli anche tecnici, dal numero di treni-bestiame piombati alla cadenza delle esecuzioni di massa quotidiane col gas Zyklone-B in dosi ben calcolate prodotto dalla moderna azienda IG Farben, con colpi alla nuca, con i criminali esperimenti “medici” in cui i deportati erano cavie destinate alla morte, fino alla “sinergia” con governi e polizie collaborazioniste esistenti ovunque, anche in Italia, come ben si sa. Accantoniamo, allora, e chiediamoci quale sia stato il senso di tutto ciò. A Norimberga, nel celebre processo ai gerarchi nazisti, venne fissato il concetto giuridico, fino ad allora sconosciuto, di “crimine contro l’umanità”. Si parla, cioè, di crimini contro l’essenza umana. I ragazzi sanno cosa significhi. E’ come se parlassimo dell’idea platonica: la cavallinità, la gattità, l’umanità. I nazisti non hanno voluto distruggere credenze giudicate erronee o dottrine perniciose e pericolose. E’ l’essere stesso dell’uomo, l’Esse, che il genocidio nazista ha inteso distruggere nella carne dolente di questi milioni di martiri. Scrive il filosofo e musicista francese Vladimir Jankélévich: “I crimini nazisti sono un attentato contro l’uomo in quanto uomo: non contro l’uomo in quanto questo o quello. In quanto comunista, massone, avversario ideologico, francese o polacco. No. Il nazista mirava proprio alla ipseità dell’essere, vale a dire all’umano di ogni uomo”. Lo sterminio degli ebrei è il prodotto della malvagità pura, della malvagità ontologica. Come vedete, qui la follia non c’entra nulla. Qui siamo di fronte a un crimine non motivato, contro natura, esorbitante. Un vero e proprio crimine metafisico. Dovremo comprendere questo. Anche perché non è detto che questo carattere non possa ripresentarsi. Ci giriamo intorno e, mai come in questi tempi, ritornano, con una certa forza, alcuni fantasmi. Che vengono richiamati in vita dai cosiddetti negazionisti.
Il negazionismo della Shoah non è un’interpretazione storiografica, non è una corrente interpretativa dello sterminio degli ebrei perpetrato dal nazismo, non è una forma sia pur radicale di revisionismo storico, e con esso non deve essere confuso. Il negazionismo è una menzogna che crede di potersi ammantare col velo della storia, che ritiene di assumere una maschera scientifica, oggettiva, per coprire la sua vera origine, il suo vero movente: l’antisemitismo. Un negazionista è essenzialmente antisemita. Chiaro e palese. L’odio antiebraico è all’origine della negazione della Shoah che inizia fin dai primi anni del dopoguerra, ricollegandosi al progetto stesso dei nazisti, quando coprivano le tracce dei campi di sterminio, ne radevano al suolo le camere a gas, e ridevano in faccia ai deportati dicendo loro che, se pure fossero riusciti a sopravvivere, nessuno li avrebbe creduti. Altro discorso è – viceversa – il dibattito sulla possibilità di “perdonare”. “Si può perdonare allo scoccare della mezzanotte? Bastano venti anni perché l’imperdonabile diventi miracolosamente perdonabile?” E’ questa la domanda che Jankélévitc si pone quando viene votata in Francia, nel 1964, la legge relativa alla prescrizione dei crimini hitleriani. Ma se il segreto di Auschwitz è il segreto dell’uomo moderno, occorrerà ammettere che i criteri giuridici che abitualmente si applicano, nel caso della Shoah non valgono. Sicché i “crimini contro l’umanità” sono imperscrittibili. Il tempo non ha presa su di essi. Non sarà possibile ridare la vita “a questa immensa montagna di cenere”. Vladimir Jankélévitch afferma l’impossibilità di perdonare i crimini hitleriani, ultimo confine storico della storia del perdono, limite insuperabile e inespiabile che eccede la misura umana e per il quale mai potrà esserci punizione proporzionata. Parole durissime, chiusura netta. Netta come la conclusione del suo testo: “Quando i sofisti ci raccomandano l’oblio, noi mostreremo con forza il nostro muto e impotente orrore davanti ai cani dell’odio: penseremo intensamente all’agonia dei deportati senza sepoltura e dei bambini che non sono tornati. Perché questa agonia durerà fino alla fine del mondo”.
Ma che cos’è il perdono? Che cosa significa perdonare? Come si può, nel concreto dell’esperienza storica, perdonare l’altro? Jacques Derrida si interroga e ci interroga su questi temi. Interroga le parole stesse del perdono, le locuzioni che le lingue usano per chiedere e accordare il perdono, i concetti simili o quelli che girano intorno all’ esperienza del perdono.
Derrida propone un radicale capovolgimento del punto di vista. Egli sa che la questione della responsabilità trova la sua dimora filosofica in “questo fragile non sapere”. Che cosa davvero diciamo allora, dicendo “perdono”? Il perdono, secondo Derrida, non può perdonare altro che l’imperdonabile. Questo spinge verso un’etica al di là dell’etica che deve esporsi a un perdono incondizionale. Del resto “perdono” rimanda a “per dono”: non ci sarebbe nessun valore nel gesto del perdonare se esso fosse richiesto, se non andasse oltre ogni calcolo, oltre ogni economia di redenzione, oltre ogni restituzione simbolica.
Il perdono è impossibile. Non c’ è perdono se si resta tra le cose umane. Bisogna uscire dalla logica dello scambio, accettare in un certo senso l’ impossibilità del perdono, accettare l’imperdonabile, e accettare di perdonare solo là dove non si dà commercio, solamente là dove il perdono non è richiesto, dove non si prospetta la punizione e non si mira alla riabilitazione. E’ la memoria allora l’unica strada che dovremo percorrere per risolvere l’aporia. E’ il dovere della memoria che, forse, potrà salvarci e tenere desta l’attenzione contro i crimini metafisici, i crimini contro l’essere.
Le orchestre suonavano Schubert mentre s’impiccavano i prigionieri. Vorrei terminare ricordando una grande violinista, Alma Rosé, nipote di Gustav Mahler.
Durante un viaggio in Francia alla fine del 1942, Alma fu arrestata in un’operazione di caccia agli ebrei. Condotta ad Auschwitz, fu riconosciuta come illustre musicista da Alois Brunner, capitano delle SS, che amava la musica. Ci fu un gioco delle parti: Brunner finse di lasciare il ruolo dell’aguzzina a Maria Mandel, che ordinò ad Alma di costituire un’orchestra sinfonica di donne ebree detenute. Brunner s’impegnò a fornire gli strumenti. Alma, ad Auschwitz, riuscì a trovare più di sessanta valentissime strumentiste. Un fatto che sottolinea, se mai ce ne fosse bisogno, la media qualità culturale degli ebrei mitteleuropei. Vestite con la casacca del Lager, le “ragazze di Alma” dilettarono il musicomane Brunner e i suoi colleghi, pur sapendo che sarebbero state tutte gassate. Se avessero suonato bene però, non sarebbero morte “per un po’ di tempo”. Perirono quasi tutte nelle camere a gas; non Alma, che morì di stenti e di malattia il 5 aprile 1944. Sopravvisse miracolosamente un’ altra musicista prigioniera, Fania Fenelon, che dopo la guerra andò a vivere negli Stati Uniti. Più di vent’ anni dopo la fine dell’Olocausto, Fania Fenelon scrisse la storia dell’ orchestra di Auschwitz. Ne fu tratto un film, distribuito in Italia con il titolo Fania.
Come vedete, non sempre la cultura ci protegge dall’orrore e diventa sempre più complicato separare i gusti estetici dalle scelte etiche. Ma, qui e ora, esse s’impongono. E non riusciremo a dormire tranquilli fino a quando non saremo in grado di schiacciare definitivamente i fantasmi che si agitano sempre più, gli spettri delle nostre paure che ci danzano intorno, come negli anni trenta e quaranta del secolo delle tenebre.
* discorso tenuto a Benevento il 27 gennaio 2012 in occasione della Giornata della memoria – museo del Sannio.