(Sanniopress) – A me le favole non piacciono. E ne ho tanti di motivi per non amarle. Sin da quando ero ragazzo io tifavo inevitabilmente per i perdenti, mi erano più simpatici. E tra questi c’erano i miei amici, specialmente quelli più discoli, che spesso esibivano trionfanti le tracce evidenti delle cinghiate appena ricevute in casa, da genitori burberi e violenti. Oggi i loro genitori verrebbero arrestati, ma allora i ragazzi non pensavano certo a denunziarli, anzi mostravano con fierezza i segni delle botte ricevute, quasi che fosse un allenamento in vista delle difficoltà che la vita, da grandi, avrebbe poi proposto.
Io la vedevo diversamente. I miei genitori erano buoni ed affettuosi e ricordo solo rarissime occasioni in cui hanno fatto ricorso a metodi “bruschi” nei confronti di noi figli. E perciò io vedevo i miei compagni di gioco come eroi coraggiosi, che invece di vivere un tranquillo tran-tran quotidiano, sfidavano ogni giorno le ire di genitori furibondi, impavidi di fronte ad ogni forma di punizione.
Infatti, le varietà delle punizioni erano tante, perché si andava dalle botte con le cinghia dei pantaloni, a quelle più tipicamente femminili; non perché fossero più morbide, ma semplicemente perché ciascuno, in famiglia, usava i mezzi “tecnici” più a portata di mano. I padri, infatti, picchiavano con la cinghia dei pantaloni, le mamme con il battipanni di vimini, le zie (tutti ne avevano in famiglia) con gli zoccoli di legno, le sorelle maggiori si accontentavano di più volgari, ma non meno dolorose, ciabatte con le suole di gomma. I peggiori erano i fratelli più grandi che usano ogni mezzo possibile, e felici di poter sfogare finalmente anche le latenti gelosie, usavano tubi di gomma per l’acqua, mazze di scopa, stracci per lavare a terra (ovviamente sporchi), ogni mezzo insomma adatto a lasciare segni tangibili del trattamento.
I miei amici-eroi, pur sopraffatti dalle violenze subite, resistevano sempre più incalliti e più le punizioni aumentavano di intensità più loro diventavano impavidi, ormai allenati agli sforzi fisici più intensi ed agli orrori più terribili. Appena sono diventati più grandi se ne sono andati via, ovviamente, a lavorare al nord. E non li ho visti più. Mi sono sempre chiesto che cosa facevano lontani da tutti ma non sono mai stato in apprensione per loro. Chi era sopravvissuto alle cinghiate date con tanto vigore, come minimo, avrebbe saputo bene come conquistare il mondo.
Io, dicevo, botte non ne ho avuto. Ero bravo, quasi ubbidiente, andavo bene a scuola; le punizioni al massimo si consumavano in una sgridata. E leggevo, a volte, ahimè, le favole. Ad iniziare da Pinocchio, e non mi capacitavo affatto. Pinocchio era un campione di disubbidienza e sfrontatezza ma quelle che subiva erano violenze mai immaginate, nemmeno contro i miei amici-eroi più discoli. Gli cresceva a dismisura il naso, lo legavano con la catena al collo per fargli fare il cane da guardia, lo trasformavano in un asino, lo gettavano a mare per ucciderlo e vendersene la pelle, lo si derubava, lo si truffava, lo trasformavano in un animale da circo, lo riducevano in schiavitù nella mani di Mangiafuoco.
Insomma un repertorio di brutalità di fronte alle quali anche i miei amici-eroi più forti avrebbero avuto la peggio. E a Pinocchio andava quasi meglio che ai personaggi delle altre fiabe. E sì, perché a casa c’erano libri con la raccolta di tutte le favole ed un po’ alla volta le ho lette tutte. E più leggevo, più il repertorio delle violenze si arricchiva ad ogni favola che mi apparivano sempre più incredibili. Perché i genitori della mia infanzia picchiavano sodo i figli ma quando si trattava di “difenderli” facevano quadrato intorno e avrebbero dato la vita per loro. E poi i miei amici magari mangiavano pane bagnato con un po’ di zucchero, ma mangiavano prima loro e poi i genitori.
Ma i genitori di Pollicino, incredibile ai miei occhi, che specie di gente era? Ma come? Lasciavano i figli nel bosco perché altrimenti non sarebbe bastato il cibo per loro! Cioè li disperdevano nel bosco, avviandoli a sicura morte; e la polizia, mi chiedevo, dove stava ? Il bambino abbandonato nel bosco e nessuno interveniva? E lo stesso accadeva ad Hansel e Gretel che solo per un insperato colpo di fortuna, incontravano una strega cattiva, poi rivelatasi salvifica per loro grazie alla casa di marzapane.
E Barbablù, che uccideva le mogli diventando il prototipo di serial killer. Biancaneve, costretta nel bosco per sfuggire alla morte decretata per lei dalla matrigna gelosa. Cappuccetto Rosso, costretta a vedere la nonna nel ventre di un lupo. Cenerentola ridotta in schiavitù da una banda di familiari invidiosi. Un repertorio, insomma, di morti, feriti gravi, brutalità, cattiverie da far paura anche al più incallito dei miei amici.
E non parliamo, poi, delle storie che alcuni “compiacenti” amici di famiglia si prestavano ad inventare appositamente per noi ragazzi, per “tenerci buoni”; solo che nelle loro storie c’erano solo streghe arrabbiate e di orchi cattivi, pronti a saltar fuori dal buio ed assalirci per sottoporci alle sevizie più terribili. Questa delle storie inventate appositamente per noi, insomma, era una specialità tutta a parte dove mica era il bene a vincere sempre, come poi accedeva anche nelle favole più truculente. Al contrario spesso trionfavano gli orchi e … addio ai nostri eroi.
Insomma, più che orientate a dare un insegnamento, come in fin dei conti volevano fare gli autori delle favole più famose, le storie che inventavano per noi erano votate solo ad esorcizzare le frustrazioni di chi le raccontava. Un modo per tenerci legati a loro, terrorizzandoci, perché solo loro potevano cambiare le sorti della storia volgendola al bene. Ma non lo facevano mai e noi eravamo in ansia al solo vederli prima ancora che iniziassero a parlare. Un disastro, insomma !
Quando è toccato a me raccontare le storie, ho fatto scelte diverse. Ne ho raccontate a tanti ragazzi ma le più belle venivano fuori quando portavo a scuola mio figlio e, insieme a lui, la cuginetta coetanea. I ruoli erano precisi! Ai ragazzi toccava inventare i personaggi, i ruoli, la trama, i ritmi. A me toccava imbastire la storia. E giù ogni mattina una storia nuova, sempre nuova, e sempre con tutti i componenti che nelle favole costituiscono il substrato vero e proprio della funzione educativa. Solo che i nostri cattivi erano del tutto patetici, capaci di mettersi a piangere per il dispiacere se solo un bambino-eroe guardava accigliato.
E poi era sempre presente il cagnolino-eroe, che in caso di emergenza, o anche per il solo gusto di spaventare un cattivo, metteva sempre in fuga tutti, anche i cattivi apparentemente più perfidi. Altro che streghe od orchi rabbiosi! I cattivi delle nostre storie erano pronti al pentimento ad ogni piè sospinto, non aspettavano altro che pentirsi e diventare addirittura più buoni dei buoni.
Insomma, i ragazzi usavano tutta la loro sorprendente fantasia per inventarsi i ritmi della storia, a cui cambiavano spesso trama ed, alla fine, governavano del tutto il racconto che, ovviamente, finiva sempre con i cattivi che si redimevamo ed i buoni che vincevano. C’erano, sì, tutti i gli elementi classici delle favole, ma nessuno spavento, nessuna apprensione, i ragazzi si immedesimavano felici nei vari personaggi. Si divertivano, insomma, ed andavano a scuola petto in fuori, pancia in dentro, fieri di aver vissuto, da vittoriosi, l’ennesima splendida avventura.
In conclusione, non contesto il valore educativo delle favole e non so nemmeno se sono stato del tutto un bravo figlio ed un bravo padre. Ma so di sicuro che a me le favole non sono mai piaciute.