di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – Confesso – anche oggi – di aver letto l’articolo di Pietro Di Lorenzo “Noi imprenditori traditi dallo Stato” con un po’ di ritardo. Preso da altre cose, ne avevo rimandato la lettura. Quando ieri sera l’ho letto mi son trovato davanti a delle domande semplici e disarmanti. Tipo: “Ma uno Stato che paga oltre 19 miliardi di euro per non lavorare che Stato è?”. Già, che Stato è?
A Sud, perché c’è sempre un Sud, credo che la “questione statale” sia più o meno così: c’è contemporaneamente troppo Stato e poco Stato. C’è troppo Stato dove non serve: incentivi, sussidi, clientele. C’è poco Stato dove serve: criminalità organizzata, evasione, servizi. Conosco Pietro Di Lorenzo, lo conosco come imprenditore e come uomo curioso di tante cose e interessi, e so per certo che anche lui, che rientra nella categoria degli imprenditori che resistono, vorrebbe allo stesso tempo più Stato e meno Stato: più dove serve e meno dove non serve. E so per certo che sarebbe anche molto più bravo di me – in verità non ci vuole molto, ma questo è un problema mio – a indicare dove togliere e dove mettere. So per certo che Pietro Di Lorenzo da buon imprenditore meridionale non ama poi tanto i sussidi, gli incentivi che nella maggioranza dei casi non aiutano a fare impresa bensì a distruggerla.
Mario Draghi, ora governatore della Banca centrale europea e prima della Banca d’Italia ha detto: “I sussidi alle imprese sono inefficaci. Creano distorsioni che penalizzano imprenditori più capaci. E’ più proficuo investire risorse pubbliche nell’effettiva applicazione delle leggi”. Perché in Italia il mondo dei sussidi statali è infinito che neanche lo Stato sa con precisione quanti siano e a chi vadano. Quello che sappiamo è che sono inutili. Ad esempio, è stato calcolato che l’effetto dei sussidi alle imprese del Mezzogiorno sia stato quello di far crescere il Pil del Sud dello 0,25 per cento in più ogni anno tra il 2000 e il 2005. In altre aree depresse d’Europa la crescita nello stesso periodo ha oscillato tra il triplo e il quadruplo in più. Gli incentivi dunque non funzionano se non a mantenere in vita imprese e aziende che chiudono appena i soldi pubblici non arrivano più. Ma questo sistema distorto non può continuare più. Si è interrotto. Inizia così il dramma italiano nel quale ci troviamo.
Le cifre che ho citato le ho prese dal libro Mani bucate di Marco Cobianchi (Chiarelettere). Un testo prezioso che non è la Bibbia – e non vuole esserlo – ma che è utile per capire un po’ meglio come funziona(va) l’Italia e dove finiscono i soldi delle pesanti tasse che ci gravano sulle spalle. Il sussidio pubblico giunge a tutti, nessuno escluso. Cobianchi fa nomi e cognomi: Fiat, Pirelli, la Saras dei Moratti e le industrie sarde (Portovesme, Vinyls, Ila, Alcoa. Ma anche giornali, radio e tv. E naturalmente il mondo del cinema compresi i cinepanettoni – che un tempo facevano incassi e ora battano cassa – e anche i film i 3D. Quindi agricoltura e allevamento, compagnie aeree, hotel e persino skilift. Ma questa orgia di contributi, sussidi, finanziamenti non serve a niente, a niente, a niente se non a mantenere un sistema che non sta in piedi da solo e che è insieme privato e pubblico. Insomma, statalista.
Tutto ci sta cadendo addosso. Come, del resto, sta accadendo in piccolo qui nel Sannio dove le aziende, di vario genere, dalla sanità alle tipografie, chiudono o sono aperte per pura scommessa, nel senso che si scommette sull’arrivo delle mensilità che non arrivano da mesi.
Altre citazioni. Dati ministero per lo Sviluppo economico, periodo 2003-2008: “Le imprese italiane agevolate con soldi pubblici sono state più di 840.000. Le leggi di incentivazione approvate sono state 1307”. Un sistema elefantiaco che, naturalmente, dà inevitabilmente grande spazio alla illegalità. Negli ultimi dieci anni la Commissione europea ha aperto 38.070 pratiche riguardanti aiuti di Stato italiani potenzialmente illegali. Perfino la mafia è sussidiata dallo Stato: i soldi pubblici vengono usati dalle aziende per pagare i debiti. Cobianchi fa decine e decine di esempi, ricostruisce storie, truffe, fallimenti.
Il declino italiano inizia qui. Mi ritorna in mente la domanda di Pietro Di Lorenzo, imprenditore che resiste: “Ma uno Stato che paga oltre 19 miliardi di euro per non lavorare che Stato è?”
Sembra banale che dovrebbero sopravvivere le imprese che effettivamente riescono a camminare con le proprie gambe, ma non sento fare da nessuno questi discorsi quando le imprese poi mandano via i lavoratori; spesso poi troppe imprese impiegano la totalità degli utili nei beni personali del o dei soci, anzichè investire in strutture migliori per essere concorrenziali. L’esempio del “sito vetrina”: imprenditori che intestano il SUV personale alla società che poi chiedono un sito “che non abbia troppe pagine, basta che abbia l’essensiale, non posso spendere molto, sai, non posso nemmeno dedicarmici” salvo poi essere commercialmente massacrati da chi tramite internet riesce a portarti il prodotto fino a casa.