(Sanniopress) – Avevo otto anni quando mi portarono per la prima volta al Club Juventus del mio paese. Si trovava nel rione cerretese comunemente detto “Cuàp’ da for’ ” e ad accompagnarmi fu mio zio. Era il 22 maggio 1996, finale di Coppa dei Campioni, Ajax-Juventus. I ricordi, in me, sono ancora vividi e luminosi: la rete di Ravanelli, Peruzzi che para il rigore a Silooy, l’ultimo tiro dal dischetto di Jugovic e, infine, Gianluca Vialli che solleva il Trofeo con le orecchie.
Già ero bianconero, ma da quella sera sono un tifoso indissolubile e inconvertibile.
Scegliere una squadra del cuore è come prendere moglie. Ci si sposa una volta e per tutta la vita. “Nella buona e nella cattiva sorte” e “finché morte non vi separi”. Il club Juventus “Andrea Fortunato” di Cerreto Sannita divenne il luogo del mio matrimonio con la Signora. Luogo dove si soffre, si piange, si esulta ai successi.
Crescendo, ho trovato analogie tra quel mondo e un altro, nel quale entravo in punta di piedi a sedici anni: quello delle sezioni di partito. Troppo spesso, oramai, le sezioni di partito somigliano a Club Sportivi. Tifosi accesi e accaniti, pronti a tutto, a scannare il nemico. Veri e propri fighters e hooligans che difendono i propri colori. Non c’è discussione politica, ma solo logorato tifosismo.
Tifosismo è quello per la Juventus, tifosismo è quello per un partito. Cambia la squadra, il logo, il nome. Spesso non la sostanza.
C’è chi si indigna per professione, addossando colpe agli altri: sono gli altri che rubano, noi siamo gli onesti; sono gli altri che fanno i cattivi, noi siamo quelli buoni. Dicono di avere le soluzioni, le verità assolute nel taschino. E se la prenderebbero sinanche con l’orologio del campanile che va un minuto e mezzo avanti, predicando di essere capaci, loro e solo loro, di regolarlo all’ora giusta. Ma malcelatamente convinti di non saperlo fare. Ma fa niente, basta esporre bene la bandiera, che si veda il simbolo, che è il nostro, eh! Mica quello di quegli altri!
Una farsa della politica, che annulla la discussione in nome della guerriglia. Senza violenza fisica, ma spesso solo verbale, senza fine ultimo che possa essere costruttivo.
Non mi illudo. Spesso i partiti politici sono così. Ma continuo ad essere appassionato di politica, studio Scienze Politiche all’Università, d’altronde. Sono sinanche tesserato di un partito. Se non altro per l’idea di partito che ho, ben distante dalla realtà disincantata inquadrata da Max Weber: “associazioni costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale e ai propri militanti attivi possibilità per il perseguimento di fini oggettivi e/o per il perseguimento di vantaggi personali”.
Amo la politica e amo far politica. Al di fuori dai luoghi comuni: “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera“. Non sto a sinistra per farmi le canne, festeggiare con pizziche tarantate e vino rosso, scioperare a prescindere e senza nemmeno sapere il perché. No. Perché queste cose le fanno i tifosi, e io tifoso non sono. So di non essere, e me ne consolo, il solo a pensarla così.
A Sinistra come a Destra. Perché anche di là c’è chi è tifoso e chi non lo è, dialogando senza rinunciare a sé stesso e alle proprie idee. Perché se uno non avesse nulla per cui morire, che senso avrebbe vivere?
Il tifoso, per capirci, è quello che condivide una citazione perché “l’ha detto Che Guevara”, ma magari non hanno mai letto una riga di Gramsci, di Habermas, di Giddens, di Bobbio. I “non-tifosi”, invece, condividono o meno un concetto senza stare a guardar troppo la firma.
Il tifoso è colui che, dotato di paraocchi e paraorecchi, non saluta per strada quello dell’altra parte.
Il tifoso, alle elezioni, lo vedremo sventolar stendardi o piangervi su lacrime amare. Come fa chi perde (e da quel 1996 mi è successo ben tre volte) la finale di Coppa dei Campioni.
(tratto dal blog “Legno sopra un’onda“)