(Sanniopress) – E’ un buon segno che alcune persone dedichino parte del loro tempo natalizio, oltre che a giocare a tombola, a dibattere, con grande civiltà, sulla qualità della vita della loro comunità. Quando si parla di cultura – è bene ricordarlo sempre – si parla di qualità. Della propria vita e di quella degli altri. E’ un buon segno che questi temi stiano a cuore di un gruppo di persone che usano liberamente e democraticamente lo spazio messo loro a disposizione. Grazie Billy, grazie Giancristiano. E’ un buon segno, infine, che si discuta senza altri fini che non quello per il quale si discute. E che riguarda il destino di questa nostra polis. Nessuna delle persone coinvolte, credo ambisca a cariche politico-istituzionali. E le ultime vicende della storia politica nazionale, regionale, provinciale e comunale confermano in pieno, mi pare, quella tesi di Oscar Wilde secondo la quale i partiti politici sono i luoghi dove si parla meno di politica.
Storia vecchia, vecchie storie. Riprendo la penna – si diceva una volta – per rilanciare, anche perché Nicola Sguera è stato molto gentile nei miei riguardi, citandomi nel suo raffinato intervento, ulteriormente impreziosito da una citazione di un Borges che, nella chiusa, mi ricorda vagamente Spinoza (un filosofo che, so per certo, lui non ama: né ammirazione né vittorie/ma semplicemente essere ammessi/come parte di una Realtà innegabile,/come le pietre e gli alberi.) “So che quel che ho scritto sarà tacciato di passatismo, di idillio piccolo-borghese”. Si può dire di tutto, caro Nicola. Se la cosa ti può consolare, ti riporto quanto scrive Ernesto De Martino, nel 1954, a proposito di certe reazioni politico-sindacali. “Alcuni dirigenti sindacali e politici del movimento contadino, impegnati come sono nella lotta quotidiana, sono portati a diffidare di questo tipo di inchieste, di cui non scorgono la utilità immediata. Molti intellettuali, che si sono accostati alla questione meridionale attraverso la letteratura tradizionale, ignorano la vita culturale effettiva delle masse popolari, le forme “analfabete” di cultura. Altri intellettuali cedono al pregiudizio che fa apparire questo genere di ricerche come forme di discredito per la loro regione o per il loro paese”.
Ma siamo sicuri, Nicola, che la gran parte di noi abbia raggiunto la consapevolezza che si debba definire cultura l’insieme delle risposte, più o meno pertinenti, elaborate, dalle comunità di donne e uomini, in rapporto ai molteplici bisogni che si affermano dentro o fuori la loro coscienza? Io credo di no. Quasi sempre – e qui il discorso non riguarda esclusivamente Benevento – cultura è ciò che va di moda. E’ ciò che passa solo per determinati circuiti. Ciò che attraversa il brunovespismo o il fabiofazismo. Ciò che appare su “Repubblica” o sul “Corriere”. Che poi certi fenomeni, nelle “tranquille città di provincia”, si affermino quasi in maniera esclusiva, mi sembra un fatto assolutamente normale. Un po’ di anni fa comprammo, mia moglie ed io, con grandi sacrifici, l’abbonamento alla stagione teatrale invernale. Per un Glauco Mauri, straordinario ne “Il rinoceronte” di Ionesco, o per un Moni Ovadia e suoi epici “cunti” yddish, ci dovemmo sorbire una serie lunghissima di scontate napoletanerie. (“E’ quello che vuole il pubblico”, sostengono, non a torto, gli organizzatori).
“Sterile rimane quel sapere che alloggia nella mente senza divenire governo della vita”. (Platone, Leggi, 689e) Il problema, alla fine, è questo. Se è vero che la filosofia non dà risposte ma spinge, senza tregua, a porci domande (è solo questo, non altro, il suo compito), siamo alla questione delle questioni. Che fare? A leggere certe dichiarazioni ci si apre il cuore alla speranza.”Credo che il limite della nostra città sia la contrapposizione a prescindere. Questo è un grosso limite della nostra comunità e dobbiamo superarlo”. Giustissima, l’osservazione di Raffaele Del Vecchio, assessore alla cultura. Questi sono i problemi seri della città e della provincia: il muoversi per gruppi, il chiudersi nel proprio guscio, la paura di fare rete, di condividere. Che lo sostenga l’assessore il quale, forse proprio in virtù di una scelta di “contrapposizione”, pensò bene di sopprimere “Cantarpasqua” – rassegna giunta alla decima edizione che, ci hanno sempre assicurato, funzionava e che, soprattutto, costava molto poco, in tempi di vacche certamente più grasse – ripeto, apre il cuore alla speranza.
Tuttavia la frase di Platone sta lì, come un’epigrafe solenne. Il filosofo c’interroga: cosa risponderemo? Ovvero: cosa faremo? Per quanto mi riguarda, si dovrà continuare, ogni giorno, a lavorare seriamente, ognuno nel proprio campo. Stabilendo relazioni, “facendo rete” e uscendo, una buona volta, da quel chiacchiericcio un po’ pettegolo, tipico di certi mondi. E “produrre”, in concreto, idee, saggi, vino, dischi, quadri, olio, lavori teatrali, piatti tipici, spettacoli. Chi “produce” buone risposte, “produce”, automaticamente, buona politica. E i politici? Ma i politici, a sentire Wilde, non s’interessano di politica. E’ un po’ come per la musica. Secondo Brian Eno, il futuro della musica è nelle mani dei non professionisti della stessa. Anche la politica.
Siamo alla fine dell’anno, consentite anche a me di essere “passatista”. Auguri a tutti con i versi del canto di augurio che risuonava, tra Moiano e Sant’Agata de’ Goti, la sera del 31:
Santa Maria, che ‘mParaviso stai,
scansa chesta casa
da le pene e da li guai
a ccà a cient’anni.
Buon anno a tutti.