(Sanniopress) – Non ne voleva proprio sapere Tommasino. Non la promessa di una cravatta nuova di zecca, non quella di un vestito fa fargli fare un figurone, non la moneta sonante, riuscivano a persuaderlo della bellezza, della magia, dell’indescrivibile alchimia che sprigiona il presepe. D’altronde gli appunti che muoveva al padre erano impeccabili: ” Nna cosa religiosa, co’ l’enteroclisima da dietro?”. La fulminante battuta con la quale il figlio gelava le velleità artistiche del padre potrebbe benissimo bollare, con qualche minimale aggiustamento, il capolavoro che ci apprestiamo, senza impazienza, di vedere per le strade del corso Garibaldi.
Ma come, potremmo ripetere con l’immenso Eduardo, “‘ma come ‘na cosa religiosa, centoventimila euro?”. La letteratura non è, come spesso si pensa, uno sterile esercizio di retorica sconnesso dalla realtà e “l’arte, non ci insegna nulla, se non a capire il senso del mondo” (H.Miller). Il presepe non è un paesaggio, è un fatto storico, rivoluzionario che ha significati tanto precisi, quanto agevolmente decifrabili: è la semplicità che illumina il mondo, è la capanna che si fa reggia restando una povera, spoglia capanna, è la povertà materiale che si trasfigura divenendo ricchezza spirituale, un capolavoro di umiltà che salva il mondo, insegnandoci però il senso del sacrificio, nel dileggio dichiarato e ostentato dello sfarzo, del lusso, dei re che banchettano.
“Non amo la miscela dell’alta e bassa gente” rispose un albergatore alla Vergine Maria che gli chiedeva un posto dove dormire in una splendida poesia di Guido Gozzano: manco in una camera di pensione poteva avvenire la rivoluzione dell’amore, doveva sgorgare dalla scomodità, dalla sofferenza, dalla rinuncia, con l’unico aiuto della natura: solo un bue ed un asinello, gli animali più umili e meno prestigiosi di tutto il creato. Nessun cortigiano, nè odalische, solo pastori, poveri, con le vesti stracciate a disegnare un paesaggio che non a caso incantava Francesco d’Assisi: “oh ignota ricchezza / o ben ferace”(Dante canto XI), lo sposo della Povertà è quello che ha dato alla nostra civiltà il simbolo del Presepe che è uno schiaffo evidente e scomodo al materialismo, alla signoria del consumo e del denaro.
Spendere centoventimila euro per il presepe significa dunque contraddirne il messaggio più profondo: è un’opera d’arte si dirà e la chiesa nel lusso ci sprofonda. Ma o il presepe è un messaggio di profonda spiritualità, di conversione, di rinuncia, fosse anche per un solo momento quello dello sguardo, al materialismo, o aveva ragione Tommasino: il presepe (da centoventimila euro) nun me piace!”.