(Sanniopress) – Carissimi Nicola Sguera e Amerigo Ciervo, vi scrivo una lettera aperta sulla scuola perché, come è accaduto altre volte con Nicola, può essere un utile contributo per una civile discussione. Ho letto che siete contrari alle occupazioni scolastiche ma so anche che nel recente passato siete stati accanto agli alunni che protestavano e criticavano la riforma in nome di una scuola migliore e soprattutto pubblica. Naturalmente, il cambiamento non solo è legittimo ma è anche motivato: non si può sostenere un movimento studentesco se degenera nel vandalismo e sconfina nella baldoria organizzata spacciata per autonomia didattica (anche se, in verità, vandalismo e baldoria accompagnano sempre ogni movimento studentesco). Tuttavia, il vostro dietrofront può, al netto delle violenze, disorientare i giovani che si chiedono: ma perché ieri sì e oggi no? I ragazzi sono fatti così, non si accontentano di compromessi, sono estremi perché muovono da posizioni di principio. Allora, con voi vorrei fare proprio una discussione di principio che muova da questa domanda: la scuola italiana che scuola è?
La scuola italiana è statale. Tutte le scuole sono statali, anche quelle private. Non nel senso che sono dello Stato, ma nel senso che fanno parte dell’unico ordinamento statale che le riconosce e le fa proprie. Le scuole private riconosciute sono infatti dette paritarie. Le scuole private non riconosciute non esistono perché se esistessero giocherebbero in fuori gioco, sarebbero cioè una moneta fuori corso. Il sistema scolastico è tutto assorbito dallo Stato. Quindi la differenza tra scuola pubblica e scuola privata non ha senso, mentre è giusta la distinzione tra scuola statale e non statale ossia non gestita dallo Stato ma rientrante nell’unico ordinamento riconosciuto dalla legge. Insomma, in Italia c’è il monopolio dell’istruzione e il sistema scolastico che vale è solo e soltanto quello che lo Stato vuole. In questo sistema è molto difficile parlare di scuola pubblica. Perché vi sia scuola pubblica, infatti, è necessario che vi sia libertà di scuola ma è proprio questo che manca. Voi due, cari amici, insegnate filosofia, e se volete potete aprire una vostra scuola ma la vostra ipotetica scuola non avrà alcun valore pubblico perché non potrete rilasciare diplomi che solo lo Stato abilita a rilasciare per suo conto e suo nome.
Il diploma (e la laurea) è ciò su cui tutto si regge. Il diploma è il valore della scuola (il pezzo di carta). Il diploma altro non è che un mezzo attraverso cui lo Stato organizza i suoi uffici, regolamenta gli accessi alla sua amministrazione e al mondo delle aziende che vive sotto la sua ala protettrice. Questo sistema scolastico è nato sotto il fascismo e si è grandemente rafforzato con la Repubblica. Piaccia o no le cose stanno così. Il sistema del diploma organizza tutta la scuola (formazione) e tutta l’università (ricerca) che in questo modo diventano strutture burocratiche dipendenti dallo Stato. Il diploma snatura la scuola e depotenzia il merito. Questo sistema lo possiamo variamente riformare cioè riorganizzare ma se non lo pensiamo nei suoi presupposti giuridico-istituzionali rimane un mito. Tutte le discussioni tra chi vuole la riforma e chi la critica in nome di un’altra riforma e naturalmente in nome della scuola pubblica sono discussioni vane che non pensano l’unica cosa che va pensata: il rapporto tra lo Stato e la libertà civile d’insegnamento.
Naturalmente, c’è un motivo se in Italia c’è il sistema della scuola di Stato ed è un motivo storico che riguarda la natura del nostro Risorgimento. Ma ora non è il caso di discuterne. Piuttosto, va detto che la scuola di Stato ha grandi meriti. Il suo più grande merito è quello di aver fornito allo Stato italiano i dirigenti di cui aveva bisogno per amministrarsi. Ma la scuola di oggi è diversa dalla scuola di ieri perché è scuola di massa. Tuttavia, pur essendo scuola di massa, ha conservato il sistema del diploma che poteva funzionare per una scuola di (pochi) dirigenti, mentre è del tutto inutile e controproducente per la scuola di tutti.
Il sistema della scuola di Stato non è l’unico possibile. Esiste anche il sistema della scuola libera in cui lo Stato non interviene nella vita delle scuole imponendo il diploma. Il sistema della scuola libera si fonda sulla libertà: l’esistenza della scuola è giustificata dalla necessità di formare, apprendere, ricercare. Il valore della scuola non è dato dal diploma e il merito non è svalutato a beneficio del possesso del diploma. Nel sistema della scuola libera, la scuola di Stato non è l’unica esistente ma una tra le tante e svolge il ruolo che effettivamente è chiamato a fare lo Stato: garantire l’istruzione quando le forze sociali non vi riescono autonomamente. Nel sistema della scuola libera lo Stato seleziona i dirigenti di cui ha bisogno – e gli impiegati, i burocrati, i tecnici – attraverso l’esame di Stato che così ritorna a svolgere la sua effettiva funzione di esame extrascolastico. Nel sistema della scuola libera la scuola non è ridotta ad essere una succursale della burocrazia statale e delle aziende e non si ridurrà a svolgere corsi di formazione per il superamento di esami di Stato. Nella scuola libera, insomma, la scuola non è più un impiego per professori – siano di ruolo o precari – e ritorna ad essere ciò che dice la parola greca: tempo libero dalle fatiche e dedicato alla formazione umana.
Lo so, non è una riforma, è una vera rivoluzione. Ma a voi le cose rivoluzionarie – soprattutto a Nicola, Amerigo non ne ha più l’età, ma quella che ha è portata con grande classe – piacciono, o no? Questa cosa non si farà mai. Perché intorno alla scuola ci sono tanti interessi extrascolastici. La scuola italiana è scuola di Stato e tale resterà. Però, se vogliamo discutere della scuola – e di tutte le solfe che si fanno: pubblico, merito, diritti, finanziamenti, precari, tagli – abbiamo il dovere di pensare che cos’è la scuola fino in fondo. La scuola è libertà, è educazione alla libertà attraverso la libertà. O vogliamo credere che l’autorità in materia di letteratura o storia o matematica o chimica sia lo Stato? Non basta dire – e lo dico anche ai ragazzi – vogliamo la scuola pubblica: bisogna anche dire che la scuola pubblica è in contrasto con il monopolio statale dell’istruzione e il diploma come strumento per l’organizzazione del sapere e degli uffici pubblici e parastatali. Abbiamo il dovere di pensare la scuola nei suoi fondamenti perché lì c’è il cuore della vita civile (oggi si dice democratica). Luigi Sturzo aveva ragione quando diceva che gli italiani non saranno liberi fino a quando la scuola non sarà libera. Purtroppo, non si chiedeva se gli italiani vogliono essere realmente liberi.
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Caro Giancristiano,
i problemi che poni, con la lucidità beffarda del tuo pensiero e la provocatoria chiarezza della tua scrittura, si rivelano sempre di urgente attualità. E spingono a interrogarci e a interloquire. Tale è la pratica che costituisce la ragione della nostra esistenza e del nostro comune lavoro. Degli argomenti che tu affronti, abbiamo avuto già occasione di discuterne. L’ultima volta, se ben ricordo, in una sala non pienissima della Biblioteca provinciale, durante la presentazione del testo – da te curato – con gli scritti sulla scuola di Einaudi e di Valitutti. Quella aula semideserta mi ripresentava una verità amarissima. La scuola non interessa quasi a nessuno. Meno che mai a chi ha fatto (o ha dovuto fare) la scelta della vita.
Mi fa piacere che tu mi associ a Nicola, nostro amico comune. Ci siamo incrociati, noi tre, più volte. Anche durante uno di quei corsi organizzati per distribuire un po’ di abilitazioni in cui io interpretavo la parte del docente e voi dei discenti. Ma le parti le aveva distribuite quel regista severissimo che chiamiamo Tempo. Era solo l’età avanzata – la mia – a stabilire, in quella circostanza, i ruoli e non altro. E ti ringrazio per quel gentilissimo “non ne ha più l’età, ma quella che ha è portata con grande classe”.
La fresca apparizione su questo variopinto baraccone mediatico ti ha però spinto verso un non troppo preciso collegamento. Stimo e voglio bene a Nicola ma sull’occupazione abbiamo avuto e abbiamo posizioni profondamente diverse. Il mio giudizio su questo inutile e, fondamentalmente démodé, strumento di lotta è netto, almeno dal 1993, anno della prima occupazione che ebbi modo di osservare in diretta al “Giannone” di Benevento. Quindi strumento di lotta sbagliato nel metodo e nel merito. Un’inefficace perdita di tempo. Un costoso giochino per giovani che amano provare il brivido di una trasgressione, naturalmente controllata dagli amici e dai conoscenti di papà. E, infine, una dannosissima arma sistemata nelle mani di molti esponenti di una piccola e media borghesia, di scarsissime letture e scadenti virtù civili, che non aspettano altro che riversare critiche “severe” sul mondo della scuola: “Professori che non vogliono lavorare e che si fanno quattro mesi di vacanze all’anno”, “alunni che non vogliono fare nulla” (per inciso: sono sempre i figli degli altri che non vogliono fare nulla. Versione scolastica di quel certo “giudizio” maschilistico sulle donne che sarebbero ecc. “tranne, s’intende, mia madre e mia sorella”). Idola phori, avrebbe detto il vecchio Bacone. Chiacchiere di piazza. O di FB. Noi sappiamo che queste frasi sono false. Sono moltissimi i professori e le professoresse che lavorano con entusiasmo. Sono moltissimi gli studenti e le studentesse che attraversano quotidianamente le nostre aule con la gerla colma di domande, con i cuori pieni di speranze e con un impegno davvero stupefacente. Per cui posso rassicurarti: i miei alunni non si sono disorientati. Le mie “prediche inutili” sull’occupazione, per citare un titolo di un testo a te caro, non sono mutate da una ventina d’anni a questa parte. Ciò non significa che la scuola vada bene e non debba essere cambiata. Non sarei aprioristicamente contrario all’abolizione del valore legale del titolo di studio e a una riforma in senso “liberale” della scuola e della società. Mi pare, però, che il vestito liberale non s’adatti bene al nostro paese e se una scuola pubblica statale, così come tu la descrivi, sia stata messa su – prima ancora che dal fascismo – dai gruppi dirigenti della Destra e della Sinistra storica, cioè dagli unici politici (Croce ed Einaudi a parte) autenticamente liberali della nostra storia unitaria, concluderemo che qualcosa in Italia non funzioni per il verso giusto. Tu mi risponderai che – storicamente – questo è dipeso dalla necessità di doversi affrancare dall’egemonia cattolica (o clericale) sull’istruzione che ha marcato, nel bene e nel male, secoli e secoli di vita e di cultura italiane. Ma perciò ti chiedo: come potrebbe trasformarsi la scuola in senso liberale con la società civile “senza stato”, direbbe Sabino Cassese, che ci ritroviamo? Con le profonde, radicali differenze di classe di cui facciamo giornalmente esperienza? Con gli ordini professionali e i sistemi corporativi mai scalfiti e con le professioni (medici, avvocati, magistrati, notai, docenti universitari) che continuano ad essere trasmesse di padre in figlio, come se, solo da qualche mese, sia stato emanato il Capitulare di Quiercy da Carluccio ‘o scocciato (come uno studente buontempone, ma dalla argutissima creatività, mi definì Carlo il Calvo)?
E’, in fondo, a ben vedere, il problema della frase di Luigi Sturzo. Una scuola liberale potrebbe nascere in una società profondamente liberale. Ma gli italiani non amano i Cavour, gli Einaudi, i De Gasperi. Amano i Crispi, i Mussolini, i Berlusconi. E, se capita che ad organizzare la scuola sia uno come Gentile, Stato etico a parte, viene fuori una scuola con i meriti che tu stesso riconosci. Ma quanti Gentile ministri della pubblica istruzione abbiamo avuto nella nostra storia nazionale? Da qualche anno si porta la scuola-azienda con il dirigente-manager incorporato e prossimo a germinare (o, se preferisci, gelminare). Da sempre sostengo che la scuola, per me, inizia intorno al quindici settembre e finisce ai primi giorni di giugno. Quando, cioè, ci sono i ragazzi con cui, magari, provare a leggere il Fedro o qualche pagina di Spinoza. E liberamente discuterne. Tutto il resto è noia. Burocrazia e “carte a posto”, ossia la regola aurea di una non certamente aurea “mediocritas”. Caro Giancristiano, io non ho le tue sicurezze. So che il liberale pratica il dubbio. E se della modernità è possibile cogliere il carattere dominante, esso è proprio il dubbio. Continuiamo a dubitare. Continuiamo a parlarne. Per scoprire, magari, come coniugare libertà e giustizia. A ben vedere il problema è tutto qui. (Amerigo Ciervo)
Caro signor Desiderio;
cercherò di rispondere, anche se non chiamato in causa, alla sua lettera aperta sulla scuola italiana pubblicato sull’ultimo Sanniopress, perché l’argomento mi sta molto a cuore. Mi permetta innanzitutto un’osservazione, poiché lo dimostra con il contenuto del suo scritto, lei dà un’interpretazione fuori dalla storia, puramente idealistica, della realtà e dei fenomeni sociali che vi accadono. Infatti lei accomuna la scuola dell’antica Grecia, aristocratica e sessista, che non serviva certo a trovare un posto di lavoro nella società, alla scuola attuale. La differenza è evidente, se non banale. Detto questo, le risparmio le forme di evoluzione politica ed ideologica che ha avuto la scuola nel corso dei secoli. Basti pensare al perché Federico II sentì la necessità di fondare l’università di Napoli, cosa di cui lei sarà certamente a conoscenza. Dunque la scuola è come tutti gli organi sociali il frutto della società che la esprime, anche la scuola moderna. Perciò la questione essenziale che si pone attualmente è se la scuola contemporanea è realmente adeguata alla società, se promuova realmente una conoscenza della cultura e se faccia crescere realmente lo spirito critico dei futuri cittadini. La risposta alle tre domande non è univoca. Alla prima domanda io credo che la risposta sia affermativa, mentre per le altre due la risposta è certamente negativa. La dequalificazione che lamentano alcuni studenti, i loro genitori, i professori ed i pedagogisti, non è il frutto perverso della degenerazione dell’insegnamento scolastico, ma del decrescente ruolo sociale che questa società ha dato e progressivamente dà alla scuola. Basti solo vedere la considerazione sociale in cui vengono tenuti attualmente gli insegnanti ed i professori . Basti solo vedere la considerazione della scuola che hanno la maggior parte degli studenti. Tutto questo perché? Perché ormai il sapere è diventato un sapere diffuso che, in massima parte, non si acquisisce più nella scuola, perché la società ha inventato macchine che incorporano il sapere ( vedi i computer ) che dequalificano il sapere acquisito con lo studio tramite la scuola ( Marx l’aveva già previsto ) . Per fare un esempio, a cosa serve studiare seriamente e diventare un buon ragioniere, quando un computer con un programma di calcolo adeguato lo può sostituire egregiamente, basta solo che l’operatore sia in grado di padroneggiare le cinque operazioni ed inserire le cifre nelle caselle giuste? Ecco dunque spiegato l’arcano. Alla società contemporanea non serve più selezionare una massa di diplomati e laureati genericamente acculturati, quelli possono essere benissimo sostituiti dalle varie macchine, servono invece soltanto super-specialisti con curricula eccezionali, che molto spesso hanno frequentato iter e processi formativi in scuole esclusive al di fuori delle comuni scuole pubbliche. Caro signor Desiderio, la questione della dequalificazione scolastica e dell’estraneità che gli studenti provano nei confronti della scuola contemporanea sta tutta qui.
Cordiali saluti.
Mario Fragnito.