(Sanniopress) – Sarà forse che è nato come me nel 1975, ma il trentaseienne rottamatore Matteo Renzi mi è molto simpatico. Solo che lui è il sindaco di una delle cinque città italiane più conosciute sulla Terra e io ho smesso di fare militanza politica – senza mai provarci davvero – quando è nato il PD e per colpa della nostalgia canaglia di una storia morta con Enrico Berlinguer.
Renzi viene dalla DC, ma ha saputo costruire una brillante carriera senza portarne addosso il fardello, riuscendo ad essere eletto presidente della Provincia di Firenze a 29 anni. Non si può che ammirarlo. Sono convinto che il Partito Democratico debba ringraziarlo per quello che ha fatto a Firenze non solo con la sua ottima amministrazione, ma anche con la provocazione del BigBang: un sussulto di dibattito vero. Pur stimando Pierluigi Bersani mi sono cadute le braccia nel sentirgli apostrofare l’iniziativa di Renzi come “idee vecchie degli anni ’80 spacciate per nuove”. No, caro Pierluigi, così non va. Questa è la risposta indispettita di un vecchio spocchioso, che si rifugia dietro frasi fatte come “Ma tu che ne sai?” oppure “Ne devi mangiare di pane…”, sempre utili per troncare una discussione che non si riesce a sostenere.
Mi sono preso la briga di leggermi tutte le 100 proposte scaturite da Firenze e di avanzi degli anni ’80 non ne ho trovati. Semmai a Renzi suggerirei di rivedere la scala delle priorità e di esprimere una più chiara e netta enunciazione di scelte macroeconomiche, perché è lì che si costruisce il paradigma di una sinistra moderna ed europea. Ma la contrapposizione è una risorsa per il PD, non un problema. Il PD è certamente l’ultimo partito italiano, cioè l’ultima organizzazione politica ad avere ancora le forme, i riti e la meccanica di un partito. In Europa invece i partiti ci sono eccome!
Nel 2006 quando Nanni Moretti uscì con “Il Caimano”, l’intellighenzia di sinistra non ci capì un ciufolo, definendolo solo un film antiberlusconiano. In realtà Moretti ha sempre avuto il pregio di vedere i fenomeni prima degli altri, come nel 2002 a piazza Navona quando gridò il celebre: “Con questi dirigenti non vinceremo mai!”. Nel film evidenzia quanto la vittoria di Berlusconi sia stata innanzitutto culturale. Sì sì, ho scritto culturale… hai letto bene, caro amico di sinistra. Perché il berlusconismo è il nuovo paradigma italiano e si basa su due concetti fondamentali: 1) i partiti e le categorie politiche sono il male; 2) la cura al male sta solo nel carisma di un leader. E di questo schema è intrisa tutta la politica italiana, tranne – oggettivamente – il PD. Oggi infatti l’offerta è composta da partiti-movimento, ovvero non strutturati e con rari momenti di democrazia interna, le cui glorie sono legate alla sopravvivenza fisica e mediatica del leader. Lega, PDL, FLI, UDC, IDV, SEL, M5S quanto tempo durerebbero senza i propri guru? Forse solo la Lega conserva alcuni tratti del partito tradizionale, ma oltrepassando di gran lunga ogni confine del “centralismo democratico”. La controprova sta nella difficoltà dei partitini comunisti, dei verdi e dei socialisti a riemergere dal nulla in cui sono sprofondati, orfani di leader carismatici.
Bersani si fa male da solo anche su altri fronti. Quando dice di essere pronto e disposto a correre per le primarie del centrosinistra di fatto abdica al suo ruolo e al ruolo del PD. In nessun paese occidentale il leader del più grande partito sarebbe disposto a mettere in discussione il proprio peso con alleati minori. Che senso hanno le primarie del centrosinistra? Ci sono già state e milioni di italiani hanno scelto Pierluigi Bersani, punto: il processo democratico è già stato celebrato. Il PD ha l’onere di esprimere la leadership, altrimenti la lezione di Prodi non ha insegnato davvero niente. E Renzi dice una cosa sacrosanta: la competizione per le idee e la leadership devono restare dentro i confini del PD, altrimenti che grande partito sarebbe? Se il centrosinistra, o Nuovo Ulivo, avesse saputo riconoscere questo semplice dato di fatto investendo Bersani di una forza senza se e senza ma, quanto tempo sarebbe durato un Governo così rabberciato? Ecco perché Silvio continua a galleggiare sulle incertezze altrui. Chi si fiderebbe oggi di una coalizione che fatica a trovare una colonna portante? Non ci sono misteri o complotti da cercare per capire la sopravvivenza di Berlusconi: la risposta è chiara ed evidente.
Ammesso e non concesso che sia come dice Bersani e cioè che lo scontro generazionale di per sé non aggiunge alcun valore, tanto per fare due conti, proviamo ad alzare la testa e a guardare all’età dei leader dei paesi più avanzati del mondo. Prima uno sguardo in casa nostra: Silvio Berlusconi 75 anni, Umberto Bossi 70 anni, Gianfranco Fini 59 anni, Pierluigi Bersani 60 anni, Pierferdinando Casini 56 anni, Antonio Di Pietro 61 anni. Il più giovane leader è Niki Vendola 53 anni, ma a mio parere con aspirazioni fuori dalla sua portata.
A guardare i Paesi più ricchi, la prima nazione che salta agli occhi è il Regno Unito, dove il leader del New Labour (il PD inglese, mutatis mutandis) è il 42enne Ed Miliband, che ha messo a riposo pezzi da novanta come Gordon Brown 60 anni e Tony Blair 58 anni. Ma dall’altra parte politica è lo stesso, l’attuale primo ministro conservatore David Cameron ha 45 anni. Gironzolando per l’Europa troviamo primi ministri ad un’età inconcepibile per l’Italia: il più vecchio è Nicolas Sarkozy (Francia) 56 anni, eletto a 52; Angela Merkel (Germania), eletta a 51 anni; Helle Thorning-Schmidt (Danimarca) 45 anni; Fredrik Reinfeldt (Svezia) 46 anni; Jens Stoltenberg (Norvegia) 52 anni, eletto la prima volta a 41; Mark Rutte (Olanda) 44 anni; Werner Faymann (Austria) 51 anni. Fuori dall’Europa: Barack Obama 50 anni, eletto a 47 anni presidente degli Stati Uniti d’America; Stephen Harper (Canada) 52 anni, Yoshihiko Noda (Giappone) 54 anni; Julia Gillard (Australia) 50 anni, Dmitrij Medvedev (presidente Russia) 46 anni.
Ma è davvero un caso che questi grandi Paesi abbiano tutti un tratto comune: leader più giovani di quelli italiani? Non è un caso per niente! È del tutto fisiologico che una nazione affidi il suo futuro ad una generazione in grado di guardare avanti di almeno 30 anni e che abbia un progetto politico. Certamente essere giovani non è un valore in sé, ma fra 30 anni i nostri leader politici saranno agli “alberi pizzuti” come si dice a Roma. Renzi e la mia generazione no, o almeno si spera.