di Nicola Sguera
(Sanniopress) – Intervengo sulle questioni poste da Billy e Giancristiano in maniera schematica:
1) Tutte le dichiarazioni di Francesco Caruso mi sembrano condivisibili: si condannano le violenze del 15 e gli errori degli organizzatori, ma si chiede una risposta politica e non meramente repressiva al problema emerso, cioè la presenza di frange violente “nel” movimento (e sottolineo “nel”, perché bisogna evitare la tentazione di distinguere “noi” buoni e “loro” cattivi).
http://www.controlacrisi.org/notizia/Conflitti/2011/10/18/16629-intervista-a-francesco-caruso/
2) È molto complicato ricostruire quanto accaduto sabato: tra gli stessi partecipanti ferve un dibattito duro. Sembra quasi la riproposizione della parabola sui ciechi che toccano ciascuno una parte di un elefante e ciascuno pensa di aver toccato cose diverse (una caldaia, un ventilabro…).
http://www.risveglio.net/C92426116/E1173317075/index.html
3) Bisogna esercitare quella che Schopenhauer chiama una delle regole di ogni sapere in generale, la legge della specificazione: «entium varietates non temere esse minuendas». Mi sembra che molti, anche voi, cadiate in una pericolosa generalizzazione. Il discernimento va esercitato in molti modi: il movimento (che ora, per semplificazione giornalistica, si suol chiamare degli “Indignados”) è estremamente variegato, pulviscolare. Il richiamo di Giancristiano a Marx e Lenin non funziona prima di tutto perché non esiste una “coscienza” (non di classe, figuriamoci, ma una qualsivoglia coscienza condivisa). Le categorie politiche otto e novecentesche non funzionano nella comprensione di questi fenomeni. Bisogna, dunque, sforzarsi di elaborare nuovi strumenti analitici. Bisogna, poi, distinguere anche all’interno delle realtà del movimento: ad esempio, “centri sociali” è un’astrazione, perché ciascuno di essi ha storie, pratiche, riferimenti diversi.
4) È, però, doveroso porsi il problema della violenza, come Giancristiano ripetutamente afferma. Dal mio punto di vista, questa consapevolezza divenne ben chiara al gruppo dirigente di Rifondazione Comunista, Bertinotti in testa, sollecitato da uno degli intellettuali più lucidi nel panorama italiano, dico Marco Revelli, quando (siamo intorno al 2003-2004) si avvia il faticoso tentativo di creare un “contenitore” politico nuovo capace di dialogare alla pari con i movimenti no-global (o altermondialisti). La non-violenza doveva diventare l’architrave di una nuova politica, rompendo definitivamente con l’asse maestro della tradizione di cui pure Rifondazione era figlia. Quel tentativo, come anche il dialogo alla pari con i movimenti, fallì, anche per le ambizioni (miopi) di chi quel processo doveva guidare (cioè Fausto Bertinotti). E quel processo va riavviato con rigore: nella pratica questo significa, seguendo anche le indicazioni di Caruso (organizzative, pratiche su come gestire le grandi manifestazioni guardando ai virtuosi modelli spagnoli, ad esempio), isolare i violenti.
5) Ma, dice Giancristiano, la violenza è connaturata al processo rivoluzionario, che non è un pranzo di gala. Potrei limitarmi a rispondere, come molti fanno, che il capitalismo ha esercitato ed esercita una violenza biopolitica ben maggiore (nella devastazione dei territori, ad esempio, o nella creazione di un nuovo sottoproletariato o nella precarizzazione delle vite), ma voglio, invece, spostare il piano della risposta più in alto. La rivoluzione del terzo millennio sarà non violenta, riguarderà non solo la distribuzione della ricchezza ma anche le strutture psichiche e cardiache degli uomini oppure, semplicemente, non sarà. Scrive il mio amico, poeta e pensatore, Marco Guzzi: «Se vuoi la pace, datti pace». Questa è la nostra sfida. E ci ho pensato ancor di più quando ho letto la frase sul profilo FB di “Er Pelliccia”: «Sono in guerra con qualcuno ma non so chi in realtà». Se la “rivoluzione” scaturisce dal nichilismo, come in questo caso, nasce già morta, e potrà produrre solo devastazione.
6) Caro Giancristiano, mi sembra che tu sia prigioniero di una cultura “binaria”: alla fine sembri dire che o si accetta la violenza rivoluzionaria o ci si rassegna allo status quo (cioè alla legge del più forte, al dominio della forza ecc), quasi come se la “forza” fosse l’unica possibile leva per modificare il mondo. Io rifiuto questa alternativa: tertium datur! Ma, come dice ancora Francesco Caruso, bisognerebbe “leggere di più”, ovvero sforzarsi di elaborare un pensiero/azione all’altezza del tempo che guardi alla “differenza” e al “radicamento”, alle forme di “democrazia diretta” e alla “decrescita conviviale”, coniugando, ad esempio, la Weil e la Arendt, Ivan Illich e Serge Latouche, ma non dimenticando mai di lavorare su di sé. Il mondo sapremo trasformarlo solo se saremo stati capaci di trasformare prima noi stessi.