di Nicola De Ieso
(Sanniopress) – In questi giorni concitati ci vedo del buono, o meglio dell’utile. La potenziale cancellazione della nostra provincia ha messo in moto un processo di analisi collettiva su chi siamo e su cosa vorremmo essere. In realtà, che si salvi o meno l’Ente dalla disordinata mannaia tremontiana, questo fulmine di ferragosto ha aperto uno squarcio politico e sociale tra la nostra gente. Anche se faticoso, ora credo sia necessario avere la capacità di osservare questo fenomeno con freddezza e lucidità, oltre la cortina fumogena del fisiologico protagonismo politico. Ed è un compito che devono assumere gli intellettuali, fungendo da fendinebbia e da grilli parlanti. Io non possiedo questa autorevolezza, ma provo ad aprire un ragionamento da osservatore mediamente informato.
“Benevento non andrà mai con Avellino!”, questo il primo grido di dolore che ho sentito elevarsi tra i tanti scossi dalla minaccia di ritrovarsi AV sulle targhe delle auto. Un urlo da stadio, che utilizzava per la prima volta con malcelato impaccio l’aggettivo “sannita” accanto a “beneventano”. E l’orgoglio giallorosso ha prodotto un frullato di guerrieri e streghe che ha trascinato via anche la storia. Ad un certo punto ho sentito novelli Tito Livio strappare intere pagine di passato gridando: “Siamo Sanniti, non Irpini!”. Che tristezza usare le parole come zeppe del tavolo sbilenco dell’ignoranza. Tanto orgoglio sannita evidentemente non si è mai tradotto nella curiosità di leggere almeno il saggio “Il Sannio e i Sanniti” di Edward T. Salmon. Ai fratelli irpini costoro chiederebbero scusa con le guance rigate dalle lacrime. Gli irpini, gli uomini-lupo, l’ultima tribù sannita ad arrendersi alla superpotenza romana, oggi andrebbero abbracciati come esempio. Purtroppo ho constatato quanto siano numerosi quelli che gonfiano il petto alla parola “Sanniti”, ma con poca cognizione.
In un crescendo di eccitazione storico-calcistica hanno trovato attenzione anche proposte in genere utilizzate al bar come argomento finale nelle dispute dialettiche antinapoletane: il Molisannio, il Principato, il Ducato e via andando con la geografia creativa. Per un attimo ho provato a immaginare che una di queste ipotesi divenga azione, traducendosi in un referendum popolare, come previsto dalla Costituzione per la creazione di nuove regioni. Chi lo spiega ai tanti suddetti urlatori che l’Irpinia è Sannio e che in una nuova regione il capoluogo potrebbe essere Avellino? Sarebbe ovvio: la città più grande, il territorio più grande, la provincia più grande. E ai Pentri di Campobasso e Isernia chi lo spiega che perderanno provincia e capoluogo di regione? Non nego che l’ipotesi di una Regione Sannio (giammai Molisannio, che sembra il nome di un pastificio) sia affascinante. Ma è un processo che andrebbe costruito tra la gente, nelle classi dirigenti dei territori, nelle scuole, nelle università. Una rivoluzione da preparare e seguire, condotta da politici che si mettano umilmente dietro un unico fronte comune. Non è impossibile, ma lo è quando viene proposta in emergenza e come arma di lotta tra e nei partiti. È un processo lungo da costruire, dove andrebbero anche ridistribuiti Comuni che vivono il disagio di scelte sbagliate di collocazione.
Per fortuna ci ha pensato un uomo di grande esperienza come Roberto Costanzo – di cui mi onoro di essere amico nonché editore del suo ultimo libro – a riportare tutti con i piedi per terra. Nel suo intervento, saggio e realista, ha detto due cose importanti: la provincia deve essere salvata come ente, ma deve ancora essere costruita come comunità; la città di Benevento ha un maledetto bisogno di mantenere lo status di capoluogo. Come farlo? Emendando dove si può emendare, percorrendo soluzioni “tecniche” (come dice il presidente Cimitile) dove la prima strada si dimostra impercorribile. Le ultime notizie dal Senato ci fanno capire che con ogni probabilità la questione è rimandata, ma non è chiaro cosa voglia fare nel riassetto degli enti locali l’attuale maggioranza in Parlamento. Cancellare tutte le province? O solo quelle ricadenti in aree metropolitane? Parafrasando un vecchio detto, direi: poche idee ma confuse. È innegabile che sia in atto una battaglia dentro il centrodestra, ma anche dall’altra parte si ascolta un concerto stonato: c’è chi prova a risolvere i problemi e chi ama ascoltare il suono della propria voce. Persino il Presidente della Repubblica è stato costretto ad un richiamo formale ad essere seri, perché il momento è serio e va affrontato con lucidità e senza fare caciara, come dicono a Roma. Dalle nostre parti siamo un po’ sul filo di un rasoio: l’iniziale afflato bipartisan comincia a scricchiolare di fronte agli esiti ballerini delle consultazioni parlamentari.
Se, come diceva Tonino Guerra, l’ottimismo è il profumo della vita, voglio provare ad esserlo fino in fondo. Sono convinto che questa vicenda, benché sia a volte bizzarra, possa essere l’ultima occasione per capire chi siamo e chi vogliamo essere.
Nel mio paese, San Giorgio del Sannio, c’è ancora chi si stupisce dei beneventani che prendono la residenza e comprano casa, chiamandoli “breventani”… con una “r” in più, a sottolinearne un’insofferenza strapaesana. Tutto questo a 10 chilometri di distanza. D’altronde San Giorgio fu chiamata “del Sannio” dal capo della Polizia Fascista, Arturo Bocchini, per darsi un tono nei palazzi romani. Il toponimo originale era San Giorgio la Montagna, trovandosi alle pendici di Montefusco, uno dei centri medioevali irpini più importanti e belli, sede del famoso carcere usato dai Borboni per reprimere i moti risorgimentali. Provate a chiedere a un sangiorgese doc (in realtà sono pochi) se si sente “beneventano”. Vi risponderà che al massimo si sente “sannita”. Mentre per un abitante della città essere “beneventano” viene prima dell’essere “sannita”. E questo vale anche per tutti i comuni della provincia, dove l’essere “sannita” è il comun denominatore accettato come compromesso. Fino a quando i beneventani di Benevento non ameranno il resto del Sannio come amano la propria Città, e i sanniti disseminati nei vari campanili non ameranno Benevento come la loro “capitale”, questo territorio vivrà sempre in un limbo, in un’eterna incompiuta, nonostante i 150 anni di storia.
Io l’ho fatto. Sono sangiorgese, ma amo Benevento. Gonfio il petto di fierezza se penso a Santa Sofia, alla Scrittura beneventana, alla porta di bronzo della Cattedrale, al Teatro romano, all’Arco di Traiano, alla Rocca dei Rettori, eccetera. Benevento è anche la mia città, qui sono nato, qui lavoro e ovunque nel mondo posso dirlo a testa alta. E non solo per l’eredità guerriera sannita, ma anche per la magnificenza romana e per per la potenza longobarda.
Mi sono stupito nell’ascoltare, durante il consiglio provinciale straordinario del 19 agosto, molti consiglieri lodare la veemenza del presidente Cimitile ma aggiungendo uno stucchevole: “nonostante lei non sia sannita”. Ecco l’apoteosi del provincialismo: non riconoscere un’appartenenza “etnica” ad un signore che è stato il Rettore nonché fautore dell’Università degli Studi del Sannio. L’appartenenza è cultura, società, economia e politica. Impariamolo dai Romani, impariamolo dall’imperatore Traiano, lo spagnolo che portò Roma alla massima espansione. Diventare cittadino romano significava adottarne le regole, le tradizioni, la cultura, non abitare a Roma.
Per questo credo che il compito della classe politica, degli intellettuali, dell’Università, dell’informazione e delle associazioni di categoria, sia prendere atto di questa occasione, di questo riflettore acceso sulla nostra identità. E guidare un profondo ripensamento del senso di appartenenza a Benevento e al Sannio, del ruolo fondamentale della città capoluogo, delle emergenze, delle urgenze infrastrutturali, del ruolo in Campania o altrove, della capacità di immaginare il futuro. Se questa guida sarà forte e autorevole, sono certo che sentirà il sostegno di un popolo compatto e coeso, aperto e tollerante, un esercito di sanniti beneventani… e longobardi.