di Giancristiano Desiderio
Se tagli agli italiani, devi tagliare a te stesso. E’ questo l’imperativo categorico che il buon parlamentare dovrebbe leggere ogni giorno che mette piede a Montecitorio. Bisognerebbe scriverlo in bella evidenza all’ingresso o nel Transatlantico o alla buvette (che resta pur sempre il luogo più frequentato del Palazzo). E, naturalmente, quell’imperativo non va predicato ma per praticato. I parlamentari sono bravissimi, insuperabili nel fare la predica ai connazionali, ma quando si tratta di dare il buon esempio sono gli ultimi del mondo. Invece, se chiedi sacrifici, ti devi sacrificare. Se chiedi risparmi, devi risparmiare. Se chiedi compensi, te li devi meritare. Insomma, se fai discorsi seri, devi essere serio. Altrimenti, non sei credibile e ogni discorso, ogni provvedimento, ogni legge, ogni riforma saranno percepiti come un sopruso e alimenteranno, a torto o a ragione, il dannoso sentimento dell’antipolitica. Il punto è proprio questo: la classe dirigente politica italiana non è credibile. Punto.
Il precetto del Vangelo – semmai lo si possa utilizzare in chiave parlamentare – recita così: non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te. La politica italiana lo ha geometricamente capovolto: si fa agli italiani ciò che non si vuole fare a se stessi. La casta batte cassa ma continua a incassare. Così due cardini della vita democratica sono dissolti: la credibilità e il merito. La credibilità consiste nell’esempio: il sacrificio degli italiani deve seguire il sacrificio della classe dirigente che governa e legifera. Se non c’è questa esemplificazione non c’è nessuna credibilità. L’antipolitica nasce nel cuore della politica: il Parlamento. Purtroppo, la casta non sa difendere prima di tutto le istituzioni.
Il merito immeritato è anche peggio: qui infatti si sconfina nei privilegi, nei benefit, nelle discriminazioni. Lo stipendio consistente, il vitalizio straordinario possono essere giustificati se sono meritati. All’origine della vita democratica c’è la meritocrazia. In Italia invece la democrazia è debole perché la meritocrazia è inesistente. La classe dirigente politica è afflitta da carrierismo. Non è un mistero per nessuno – e ancor prima del varo di questa legge elettorale in cui i parlamentari sono nominati e cooptati – che oggi giorno diventare parlamentari significa entrare in un club in cui ciò che conta non sono l’autorevolezza, la competenza e il servizio al Paese, ma l’arrivismo, l’improvvisazione, il tornaconto. Questo è un dramma nazionale e la critica dei privilegi della casta sono solo la parte più nota e appariscente, mentre l’abbandono della pratica del buongoverno nelle regioni e negli enti locali è ciò che ci condannerà a diventare un Paese in declino.
Il motto della classe dirigente politica è quello dei film di Totò: armiamoci e partite. Il problema nazionale esula dai problemi della classe dirigente. La formula classica della differenza tra “Paese reale” e “Paese legale” ha subito un aggiornamento che si riassume nel fatto che la casta ha una visione turistica della politica, delle istituzioni e, in ultimo ma non ultimo, della vita pubblica. Una volta c’era la ribellione delle masse. Oggi c’è la ribellione delle élite. E le élite sono appunto le classi dirigenti del Paese, nazionali e locali, che si ribellano al loro dovere di governare e di nutrire, dunque, un senso vero della realtà. La differenza tra la “realtà” è la “legalità” è oggi più grave rispetto al passato perché il “Paese legale” prospera proprio sui sacrifici del “Paese reale”. Eppure, guardiamo alla crisi economica e finanziaria che, nonostante le tante assicurazioni, non è ancora dietro le nostre spalle. Ebbene, è proprio il “Paese reale” che ha tenuto, è proprio il sacrificio del ceto medio, così randellato dalla manovra di chi voleva tagliare le tasse già nel 1994, che ci consente di essere ancora nella competizione del mondo. Con fatica, ma ci siamo. Ma il conto della casta non lo possiamo più pagare. Ed è soprattutto un conto politico e morale, prima che economico.