di Antonio Tretola
(Sanniopress) – Se i programmi scolastici non fossero ancora viziati da una logica primo-novecentesca, se i professori avessero la possibilità di spiegare agli allievi Von Bismarck ma anche Enrico Curcio, l’attentato di Sarajevo (ricordate, quello della “goccia che fece traboccare il vaso” nel 1914) ma anche quello ad Aldo Moro, se si studiasse la Belle Epoque ma anche e soprattutto lo “shock petrolifero” che modificò completamente i connotati dell’economia che viviamo, forse un maggior numero di studenti avrebbe oltrepassato la fatidica soglia del “tema di storia”, quello che fa tremar le vene e i polsi solo perchè spesso, inconsapevolmente, si ritiene che la storia sia una ridda di date e di nomi e non invece il mezzo più prezioso di cui disponiamo per capire qualcosa delle cose.
E se la storia è anche la combinazione che scardina la cassaforte di tanto presente incompreso ed incomprensibile, gli Anni Settanta contengono molti dei numeri di quella combinazione e quella traccia davvero assolveva al compito primo di un testo d’esame alla maturità: analizzare il presente sulla scorta dei mezzi che le discipline scolastiche (la storia, in questo caso) hanno fornito (o avrebbero dovuto fornire) e messo a disposizione a conclusione di un percorso quinquennale.
Proprio loro, quei maledetti anni Settanta, ricettacolo di germi poi trasformatosi in virus pericolosi, quelli che ridimensionarono in maniera definitiva le pretese di un Occidente convinto allora che lo sviluppo sarebbe stato infinito, indefinito, eterno.
Ed invece gli Anni Settanta, dannati eppure dannatamente importanti, mostrarono implacabilmente che il cammino del mondo sarebbe stato molto più accidentato e problematico di quanto non lasciasse presagire lo strepitoso “boom” degli anni Cinquanta-Sessanta.
Qui da noi accadde, ad esempio, che un giorno, il prefetto di Milano Libero Mazza scrisse una perspicace relazione in cui diceva: “Stanno per nascere movimenti pericolosissimi, che propugnano la lotta al sistema e si prefiggono di sovvertire le istituzioni democratiche con la violenza organizzata”. I mai troppo brillanti burocrati ministeriali giudicarono quelle frasi come il solito eccesso di solerzia di un rigoroso uomo d’ordine ed invece quelle parole erano sì algide ma anche profetiche: erano le Brigate Rosse, il ritorno della violenza politica, la morte come conseguenza di un’idea, la fine del boom economico ed il ritorno delle squadracce, con i revolver a sostituire i manganelli; era il ritorno al passato che ancora condiziona il presente che viviamo. Tutto ciò che accadde negli Anni Settanta si riverbera nitidamente nel presente: la fine dell’ideologia politica come steccato non oltrepassabile, per esempio. Il Partito Democratico non esisterebbe senza il “compromesso storico” e le “convergenze parallele”, senza Berlinguer ed Aldo Moro, senza l’abbraccio, benchè inizialmente timido, tra le due grandi culture politiche italiane: quella socialista e quella cattolica. La Macchina del Fango, i dossier, le spiate ed i giornali come corpi contundenti, ci appaiono come novità assolute ed invece tutto iniziò proprio durante gli Anni Settanta: il caso Watergate negli Usa, il caso Leone in Italia, giornalisti con la penna manovrata da un venditore di materassi, Licio Gelli che da un piccolo paese della toscana, Castiglion Fibocci, muoveva le file di mezza Italia, senza che l’altra mezza lo sapesse.