di Giancristiano Desiderio
(Sanniopress) – La cricca, i furbetti, la casta, la casa sul Colosseo, l’Olgettina: questo è il mondo in cui viviamo. Il calcio fa parte di questo mondo. Il calcio è sporco come è sporco il mondo, meravigliarsene è un’esperienza inutile, dice Mario Sconcerti sul Corriere della Sera riecheggiando J.P. Sarte e la sua più celebre “Dio è una passione inutile”. Chi ha più di quarant’anni sa per esperienza e ricordi nazionali, sportivi e personali che lo scandalo del calcio-scommesse è cosa antica: non è la prima volta che accade e non sarà l’ultima. Certo, vanno presi provvedimenti, c’è bisogno di verifiche e squalifiche e, molto verosimilmente, questa volta non basterà la sola giustizia sportiva. Del resto, quando scoppiò il caso di Luciano Moggi e di Calciopoli furono in molti – chi scrive tra questi, ma è irrilevante – a dire che Lucianone somigliava troppo al Cinghialone della buonanima di Bettino Craxi: insomma, il classico capro espiatorio della vita pubblica italiana. A dimostrazione che con il gioco sporco del nostro calcio – sia di seria C o B o A o dell’ultima delle divisioni – bisogna decidersi a fare i conti in maniera diversa e più seria. Non bastava la giustizia per uscire dalla Prima repubblica – soprattutto se si trattava di giustizia politica e giacobina – e non basterà la giustizia dello sport per uscire o, meglio, amministrare gli illeciti sportivi che sono diventati illeciti del mondo dello sport. Altrimenti, staremo sempre a rincorrere un pallone corrotto credendolo puro e a legittimare o delegittimare quello o quell’altro scudetto, quella promozione o quella retrocessione. Esattamente come avviene in politica e in Parlamento. Trasferiremmo il tifo calcistico dalle tribune, dalle curve e dalla passione dei cuori alle aule dei tribunali. Un’idiozia (e a volte non si può negare di credere di vivere in un Paese tendenzialmente idiota).
Per chi ha esperienza dei campi di calcio di periferia, i cori da stadio contro l’arbitro venduto – con la variante delle corna – sono una sorta di colonna sonora della domenica allo stadio (quando c’era ancora Paolo Valenti con i suoi Tonino Carino da Ascoli, Luigi Necco da Napoli preceduti da Mario Poltronieri per l’automobilismo di una Ferrari battuta regolarmente da Alain Proust). Oggi, però, ad essere venduto non è più l’arbitro cornuto ma i giocatori. Più il campionato è inferiore e più la corruzione dei calciatori sembra che sia superiore. Il motivo, leggendo le carte dell’inchiesta della procura di Cremona e i resoconti delle cronache, è abbastanza semplice: i soldi facili. Questa è la filosofia dominante del nostro tempo: c’è bisogno di tanti, molti soldi e devono essere facili da conquistare. I calciatori che inseguono questo mito sono a tutti gli effetti figli del loro tempo. Questo oggi è diventato quello che una volta, tra catenacci e sacrifici, era il gioco all’italiana (che in fondo, se ci pensate bene, ci ha salvato dalla crisi più nera dal 1929).
Il gioco all’italiana è diventato il gioco delle carte truccate. I calciatori si accordano tra loro per far vincere, perdere o pareggiare e per far convergere su quella partita combinata le scommesse dei “Milanesi”, degli “Zingari”, degli “Albanesi” e dei “Bolognesi” (e di questi ultimi pare che facesse parte l’ex bomber laziale e nazionale Beppe Signori, ora ai domiciliari). Il sistema messo in piedi con i piedi dei calciatori era collaudato e, stando alle indagini e alle intercettazioni, con svariati anni di carriera alle spalle. Naturalmente, tutto va verificato, controllato, dimostrato. La presunzione d’innocenza val e sempre e comunque garantita (cerchiamo di non dimenticare anche i fondamentali del nostro gioco più importante: la vita libera). Tuttavia, il malcostume del calcio corrotto è un fenomeno che va al di là dell’aula di tribunale e investe, lo si voglia o no, direttamente la qualità del nostro calcio. Non è un caso che una squadra da favola come il Barcellona di Messi e di Guardiola non fa parte in niente del cattivo gioco italiano. E’ probabile che l’Italia sia un Paese che non sa più giocare. Poco conta che cinque anni fa abbiamo vinto la Coppa del Mondo perché quello fu per davvero il campionato mondiale più brutto di sempre. Non abbiamo più il gusto del gioco. Perché? Se alla vita – persino alla vita operosa, quella che è seria e che serve a portare il pane a casa – togliete il gusto del gioco, che cosa rimane?
Siamo diventati una nazione che conosce una sola regola: il successo, costi quel che costi. Tutti sono disposti a tutto pur di acciuffare il successo: tutto, ora, subito. Il trucco è diventato la scorciatoia dei nostri pensieri e delle nostre vite pur di avere successo, di mettersi al sicuro, di avere soldi. Marco Paoloni – porca miseria, il numero 1 di una squadra e di una città che conosco come le mie tasche: Benevento – è “vittima” di questa filosofia maldestra dell’esistenza: il suo tè caldo al gusto di Larmetazepan che aveva il compito di stendere al tappeto i suoi stessi compagni di squadra nella ormai famosa Cremonese – Paganese del 10 novembre 2010 è degno di una moderna commedia di Goldoni sul vizio del nostro tempo che si atteggia a virtù. Tutto è iniziato da qui, da un episodio che ha dell’incredibile e dell’inverosimile, come giustamente dice Daniele Belotti, l’assessore della Lega al comune di Bergamo che non crede che Cristiano Doni, quello che ha una vita da mediano e che ha portato l’Atalanta in serie A, sia improvvisamente impazzito. Eppure, caro Belotti – fatta salva, fino a prova contraria, l’innocenza di Doni – noi tutti viviamo in un Paese in cui perfino il gioco ha perso l’innocenza che gli dava senso.
(tratto da Liberal)