di Giancristiano Desiderio
Se avessi potuto, io Edmondo Berselli me lo sarei portato a casa. Perché non era mai noioso, non era scontato, stava mille e più miglia lontano dal conformismo ma non era per nulla snob. Il Berselli era popolare e al contempo aristocratico. Un signore, se questa parola desueta ha ancora un buon valore. Mi disse: “Ho scritto di canzoni, musica e calcio perché ho lavorato con persone, come Nicola Matteucci, che sapevano tutto di filosofia e costituzionalismo, Kant ed Hegel, allora io mi interessai di ciò che loro non sapevano”. Nel 2006 scrisse un libro strepitoso, Venerati maestri, e io che conducevo una trasmissione televisiva su una rete Rai semiclandestina – RaiFutura – lo invitai a parlarne. Accettò di buon grado e venne a discutere con eleganza della teoria generale che serve per capire la cultura nazionale: la “bella promessa” che può evolvere o saltare nel cerchio dei “soliti stronzi” e da lì – ma sono in pochi a farcela – spiccare il volo verso l’empireo dei “venerati maestri”.
I libri di Berselli, insieme con gli altri che – vedrete – ora verranno fuori, resteranno, come sono rimasti a parlarci per sempre i libri di Flaiano e Longanesi. Quello appena citato, i Venerati maestri, inizia così: “Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla. Non mi piace un romanzo, non mi piace un film, la musica, la televisione, non mi piace praticamente niente di quanto viene prodotto in Italia. Non mi piacciono gli indiscutibili. Non mi piace ‘o presepio. Non mi piace Roberto Benigni. Non mi piace Susanna Tamaro”. A me piaceva da matti il suo modo di scrivere, di dire, di pensare. Aveva un dono o, meglio, una “conquista”: attraverso canzoni, cantanti, mode, modi, automobili, battute, aneddoti, sapeva parlare dell’Italia di ieri e di oggi. Il “non sapere” di filosofia e di costituzionalismo – come diceva – era una scusa bella e buona per parlare delle cose gli piacevano perché avevano il gusto del suo Paese che amava. Nella pagina di Berselli, come nei suoi articoli, ci sentivi un’aria di famiglia: non era astratto, saccente, intellettuale, era concreto, umile, popolare. Era stato direttore di una delle riviste più importanti del secondo dopoguerra “Il Mulino”, ma la cosa la faceva passare in secondo ordine: “Sì, certo, c’è il lavoro della rivista, ma non ci vuole poi molto”, mi disse quando un po’ curioso gli chiesi qualche informazione su i suoi non pochi impegni, “bisogna mettere in conto qualche telefonata”. Era un intellettuale anti-intellettuale.
Il suo “libretto” Il più mancino dei tiri – edito da Il Mulino e poi recentemente riproposto da Mondadori – è diventato un classico del genere e non nascondo di averlo studiato e ripreso qua e là per scrivere le mie cosette di calcio e filosofia. In Adulti con riserva spiegò alla sua maniera perché il Sessantotto e il rumore del rigore ideologico del Pci avrebbero finito di lì a poco per spegnere quel sano individualismo dei ragazzi italiani qualunque, rappresentati da Celentano e Mina, che avevano fatto una rivoluzione “beat” con jeans, minigonne, rock e twist e senza la solfa e l’impostura dell’impegno e della contestazione. E’ finito il pezzo e mi accorgo di non aver parlato di politica. Gli farà piacere.
FONTE: LIBERAL