Morì alle 7 e 30 della mattina del 19 marzo 1994, don Giuseppe Diana. Parroco a Casal di Principe, terra dilaniata dalla camorra. Luogo di malcostume diffuso, tra la gente abituata al malaffare dei potenti, che ringhiano e ruggiscono con i soldi sporchi del sangue altrui.
Il sangue versato è anche quello di don Peppe, che un Natale decise di diffondere un manifesto della legalità, dell’onestà, dell’impegno civile. Lo chiamò “Per amore del mio popolo non tacerò”, lui che conosceva bene le Sacre Scritture ed il loro più profondo significato. Sta scritto infatti nella Bibbia, tra le parole del profeta Isaia: “Per amore di Sion non tacerò, per amore di Gerusalemme non mi darò pace, finché non sorga la sua giustizia come stella e la sua salvezza non risplenda come lampada”.
Con quel documento, nel quale don Peppe ebbe il coraggio di denunciare il corrotto sistema che tiene tutt’oggi soggiogata la terra aversana, si registrò un cambiamento nella comunità di Casal di Principe. Attraverso tutte le parrocchie della forania, infatti, quelle parole cominciarono a risuonare, per opera dei ragazzi dell’Azione Cattolica che diffusero il documento di don Peppino a tutti i fedeli. Messa dopo Messa, incontro dopo incontro. La Chiesa presente sul territorio come faro di onestà e di legalità, per la prima volta apertamente schierata contro il potere criminale della camorra. Come una nuova vita.
Don Peppino fu ammazzato, il giorno del suo onomastico. Si apprestava a celebrare Messa. Un killer, che neppure sapeva chi fosse don Giuseppe (chiese ad una fedele “dove sta il prete?”), lo uccise con quattro colpi di pistola alla testa.
Volevano farlo fuori, tappargli la bocca, invertire quella tendenza alla legalità che, inevitabilmente, la sua opera di conversione degli animi, vero e fortissimo impegno umano prim’ancora che pastorale, aveva innescato nel cuore di tanti cittadini casalesi. Volevano che ci si dimenticasse di un parroco troppo giovane e troppo irrequieto, troppo impegnato in fatti non suoi. Avrebbe dovuto solo celebrare Messa, don Diana, secondo i suoi assassini, mandanti ed esecutori. Invece oggi commemorare don Diana vuol dire riaprire ancora una volta il cuore a quel grido di lotta. Vuol dire riaccendere in ognuno il desiderio di trasformare in verità quelle parole così vere e così forti da riuscire a trasformare, anche solo un po’, lo spirito inquinato di una comunità sotto scacco criminale.
Ricordare don Peppino Diana a 16 anni dalla sua morte significa anche pretendere che la Chiesa, le istituzioni religiose, gli enti sociali, il mondo culturale ed intellettuale, le istituzioni e la politica, le associazioni e la cittadinanza, tornino a svolgere il proprio autentico ruolo, senza sfuggire dietro gli inganni di scappatoie troppo facili da imboccare. Ricordare il sacrificio di don Diana significa pretendere diritti, libertà, legalità, verità, giustizia, etica.
Perchè don Peppino disse “il nostro impegno di denuncia non può e non deve venir meno. Dio ci chiama ad essere profeti”. E nessuno di noi potrà mai dire che non ebbe ragione nel professare queste parole.