di Giancristiano Desiderio
La vicenda della sostituzione di Alberto Bottino alla direzione dell’ufficio scolastico regionale della Campania è emblematica. La scuola italiana è prima di tutto una grande macchina burocratica che, causa la sua elefantiasi, non è neanche in grado di avvicendare in tempi utili i direttori degli uffici. Intanto nella scuola vera, quella fatta di banchi e cattedre, è ormai da tempo finito il primo quadrimestre e, nelle scuole che adottano il trimestre, tra poco finirà il secondo trimestre, ma ancora non sono state decise tutte le immissioni in ruolo e l’anno in corso si prepara a girare l’ultima curva. I sindacati protestano per i tagli, tutelano i precari, manifestano per i diritti, ma cercare nel sindacato la cura per la scuola è come curare questo tipo di malato con una delle sue molte malattie. La scuola italiana, come una grande autostrada piena di automobili, tende all’immobilità per eccessiva grandezza. Nella scuola il 97 per cento delle risorse economiche – come è stato ricordato più volte – va via in stipendi, ma c’è anche un altro numero che può dare il senso della mostruosità di cui parliamo: al ministero dell’Istruzione fanno capo una cosa come un milione e 300mila dipendenti. La scuola italiana è l’azienda più grande del Paese, ma non solo è improduttiva, è anche a rischio collasso. Si può capire, allora, la scelta di “Italia Futura” di non partire dal “sistema”, bensì dai suoi protagonisti e, parlando di scuola primaria, dai “maestri d’Italia”.
Scriviamo maestri, ma in realtà si tratta quasi esclusivamente di maestre. Anzi, la maestra è una figura educativa tipicamente italiana. Sono proprio le “maestre d’Italia” che tra Ottocento e Novecento, con stipendi da fame, permettono la costruzione di una scuola laica nazionale interrompendo il monopolio dell’insegnamento ecclesiastico. Ancora oggi mia nonna, una delle “maestre d’Italia, mi dice che in gioventù andava a insegnare in una scuola rurale e si muoveva sul dorso di un asinello. Si dirà: altri tempi. Verissimo. Ma la rievocazione ci fa capire l’importanza della scuola: attraverso l’educazione, soprattutto la primaria e la secondaria, passano i destini di una nazione.
Parlare di maestri, insegnanti, docenti per discutere della scuola è senz’altro un buon metodo. I docenti “sono” la scuola. Però, come notava ieri Marco Demarco, quando si pone la domanda “come insegnare?” la scuola dei docenti si divide in scuole. E’ avvenuto anche con la presentazione del rapporto di “Italia Futura” sulle maestre: meglio le “montessorine” o il rigore formativo? Le maestre, giustamente, rivendicano il loro diritto a dire come insegnare e cosa fare per migliorare la scuola e cosa fare per garantire la cattedra ai precari. Tuttavia, c’è qualcosa che non torna. In Italia, infatti, la libertà dell’insegnante trova un suo preciso limite nell’esistenza del monopolio statale dell’istruzione. Docenti e maestre vogliono decidere la didattica, ma non sono disposti a rischiare e fondare delle scuole rinunciando al valore legale del titolo di studio e uscendo dal monopolio statale dell’istruzione che ormai non si regge più in piedi. E’ il vero limite del dibattito italiano sulla scuola immobile: perché la scuola è una creazione della società prima che dello Stato.
(intervento pubblicato oggi dal Corriere del Mezzogiorno)