di Simone Aversano
Si accavallano nomi e cognomi, date, rievocazioni. Si confondono eventi e vicende, sfugge di mano il filo da tenere per non perdersi per strada, in mezzo a tutto questo riecheggiare di bombe, attentati, colpi d’arma da fuoco. Sembrano tornare a svolazzare fogli di giornale d’epoca, strappati e maciullati dal tempo e dal calpestio distratto della gente. Il caos aumenta a ritmo di bandiere esposte e di celebrazioni solenni, squilli di tromba, e gesti pesanti di significati. Notizie d’agenzia, aggiornamenti dalle aule dei tribunali, parole che cercano di spiegare con chiarezza per chi proprio non ce la fa a tenere il passo. Per chi dimentica non c’è scampo, sono tutti tagliati fuori. Per chi vuole ricordare, invece, questi sono i giorni più forti, più densi come è denso il fumo che esce dalla canna di una pistola, dopo il gesto estremo che riesce a segnare uno spartiacque. Sono i giorni senza respiro in cui ricorrono, per motivi diversi, personaggi che sono padri e figli, spesso anche orfani, dell’antimafia: Rosario Livatino, Giancarlo Siani, Roberto Saviano, Paolo Borsellino. Ciascuno di loro in questi giorni è nato e morto, rinasce e muore ancora. Ciascuno di loro ha trovato e trova spazio in questi giorni tra le pagine dei giornali, come sempre troppo dimenticate e troppo esposte al calpestio facilmente distratto della gente comune.
Era il 21 settembre 1990 quando Rosario Livatino veniva barbaramente ucciso da sicari della Stidda sulla strada che collega Canicattì ad Agrigento. Era soprannominato “il giudice ragazzino”, perchè aveva solo 38 anni quando venne ammazzato. Una giovane età che non tradiva alcuna inesperienza o timore verso la enorme sfida in cui trovò la morte. Una sfida enorme anche perchè Rosario era solo, solo contro la mafia e solo contro una società impreparata a sostenere la sua battaglia di magistrato e uomo di Stato.
Si va avanti di due giorni e si torna indietro di cinque anni: è il 23 settembre 1985, alle ore 21. Nella sua auto è riverso il corpo straziato del giornalista del Mattino Giancarlo Siani. E’ stato fatto fuori, gli hanno sparato. Sapeva troppo, aveva raccontato troppo. Aveva osato addentrarsi come un ladro spavaldo dentro le maglie della camorra napoletana e casalese, l’organizzazione criminale che, pur divisa in clan, tiene da decenni sotto scacco le due province e l’intera regione campana. Aveva spiegato vicende e meccanismi, reso comprensibili anche alla gente le fondamentali dinamiche del potere camorristico, in un frangente a metà strada tra la guerra di camorra più intensa e la possibile pax tra i clan. Nelle ore dell’anniversario della sua uccisione, avvenuta pochi giorni dopo il suo ventiseiesimo compleanno, le agenzie hanno fatto echeggiare la notizia dell’arresto di un uomo del clan Gionta, il clan di Torre Annunziata, il primo nucleo camorristico a venir raccontato da Giancarlo Siani dalle colonne del Mattino.
Un passo indietro, 22 settembre. Roberto Saviano compie 30 anni. Un traguardo, una data da ricordare per ogni uomo, per ogni giovane che si avvia verso l’età più adulta. Lui no, lui non ha da spegnere candeline ma da contare ancora una volta le sue ore passate sotto scorta, il numero di volte che le parole infuocate del suo libro “Gomorra” sono passate sotto gli occhi di qualcuno, in ogni parte del mondo e in ogni lingua. Roberto Saviano ha da contare i granelli di speranza, forse anche i giorni che lo separano dall’atto finale: quell’esecuzione già più volte annunciatagli dal clan dei casalesi, che lo ha condannato a morte proprio per quelle sue parole infuocate e per l’assurdo coraggio di scriverle. Ha girato la porta, ha mostrato l’altro verso delle cose, ha squarciato la cortina, Roberto Saviano. Ci si vede attraverso, adesso, a questa camorra casalese dimenticata dal mondo perchè ad essa si è da sempre preferita la mafia. E mentre il mondo la dimentica, Saviano ci ricorda come del mondo la camorra casalese sia divenuta padrona assoluta, tra droga, armi ed ogni sorta di traffici, illeciti e perfettamente legali. E mentre lo scrittore persevera nella sua battaglia senza spiragli di luce, l’appello alla sua terra, lanciato proprio nel giorno del suo compleanno di un anno fa, riecheggia ancora nelle orecchie addormentate dei cittadini della Campania, del Sud Italia, di tutto il nostro Paese.
Di mafia in camorra e di camorra in mafia. Sono giorni convulsi, questi, per le fasi cruciali della nuova inchiesta che si sta conducendo a Caltanissetta e Palermo per cercare di scoprire se ci fu mai trattativa tra la mafia e lo Stato. Una trattativa ipotizzata, paventata, data per certa, smentita, in bilico tra suggestiva fantasia e disarmante verità. Tra interrogatori dei pentiti, dichiarazioni degli altri personaggi interni a questa vicenda, tra cui il Vicepresidente del CSM Nicola Mancino, si fa strada l’ombra rassicurante del giudice Paolo Borsellino, il cui assassinio è più degli altri al centro delle nuove indagini. La stagione delle stragi vista da lontano è carica di malinconia, tristezza, rabbia ancora da esplodere e una lunga battaglia da portare a termine. Paolo Borsellino aspetta, aspetta come noi altri di vedere che sia fatta luce su quella faccenda, su quel passaggio fondamentale della storia del nostro Paese. La cerniera fra prima e seconda Repubblica, la zona d’ombra, l’oscurità più omertosa. “Il fresco profumo di libertà” può attendere, non è ancora il momento giusto. Prima viene la verità. Una verità da guardare negli occhi, da voler vedere a tutti i costi e con tutte le forze. E questi giorni carichi di segnali e significati dell’antimafia possono fare da nuovo acceleratore.